Onore al soldato Enrico

Enrico Letta, Presidente del Consiglio ora dimissionario, assume su di sé in queste ore le conseguenze di errori e scelte sue, ma anche di errori e scelte di altri.

Sarebbe errato, credo, osannarlo ora, per compensare con complimenti tardivi (e ipocriti) il modo sguaiato con il quale il premier uscente è stato liquidato. Sarebbe sbagliato anche per coerenza, perché tanti di noi (italiani) non hanno risparmiato al suo governo critiche su critiche, specie in campo fiscale per l’orrida vicenda legata all’abolizione dell’IMU sulla prima casa. E mi ci metto anche io, senza ritrattare una riga di quanto ho pensato allora.

Credo però che, con oggettività e anche a costo di sembrare salomonici, in parte il governo Letta può essere criticato per errori suoi, soprattutto di timidezza ed attendismo. Ad esempio, perché il bel documento “Impegno Italia”, che è un programma d’azione serio e preciso, non è stato presentato prima, all’uscita di Berlusconi dalla maggioranza o subito dopo l’elezione di Renzi alla segreteria del PD? O anche subito prima delle primarie, costringendo candidati ed elettori ad esprimersi con sincerità sul governo? Forse Enrico Letta ha un po’ peccato di deferenza verso il neo-leader fiorentino, che temeva e che, se proprio avesse voluto arginare, avrebbe dovuto affrontare senza chinare il capo.

D’altra parte, però, non tutto il male viene da Enrico. Egli ha dovuto certamente operare in condizioni difficilissime, provate dall’istantaneo viaggio fatto a Berlino dalla Merkel nella stessa giornata in cui aveva raccolto la fiducia dal Parlamento italiano, e soprattuto dalla forzata convivenza di cinque mesi (28 aprile-28 settembre) con Berlusconi, con tutto ciò che essa ha comportato.

In realtà, dopo quello guidato da Mario Monti, il governo Letta è apparso più che altro come il secondo governo Napolitano. Per cui sui questo il premier uscente può stare sereno davvero, dal momento che non è suo lo schema di gioco che la Direzione del PD ha voluto terminare.

Se mi posso permettere un giudizio, penso che quella che il nuovo corso del PD sta cercando di archiviare non è tanto la leadership di Enrico Letta (mai nata), quanto quella di Napolitano, che è stato il vero capo dal centrosinistra fin dai primi scricchiolii del governo Prodi (2006-7) e la vera guida del Paese dall’ottobre 2011 ad oggi. Quello che il Partito Democratico, due giorni fa, ha cercato di fare è il passo che chiuda l’esperienza dei governi ispirati direttamente dal Quirinale, avviando una nuova stagione dove sia la forza stessa del Partito, fondata nelle primarie, ad ispirare ed orientare il governo del Paese.

È una bella sfida, e io tifo perché sia la forza collettiva di un grande Partito a prevalere, nonostante tutti gli errori anche gravi che possono essere stati fatti.

In questo senso, una domanda è lecita: sarà il primo governo Renzi o il terzo governo Napolitano?

Sono le nostre crisi che generano l’Europa della Merkel

E ci risiamo! Altro giro, altro regalo: il PdL fa cadere due governi in dieci mesi. Dopo la “tempesta dell’Immacolata” che falcidiò l’anno scorso il governo Monti, ora è il turno di quello Letta.

Più che un “no” ai due moderati europeisti che hanno guidato questi esecutivi cui lo stesso PdL pure ha partecipato, è sempre più chiaro che si tratta di un “no” alla linea politica. Un “no” alla linea Napolitano, il vero leader politico che ha diretto le principali vicende del Paese per il tramite di quei due governi, molto “suoi”. Talmente tanto suoi che Enrico Letta arrivò a dire, lo scorso 20 agosto alla tv pubblica austrica:

“Questo Governo deve la sua fiducia al Presidente della Repubblica e al Parlamento, e il Governo lavorerà fino a quando la fiducia del Parlamento e del Presidente della Repubblica saranno confermate”.

Capo dello Stato e Parlamento alla pari, senza differenze, nel rapporto col Governo. Per gli studiosi, il distillato del semipresidenzialismo, come il Reichspräsident della Repubblica di Weimar. Cercando invece di fare qualche considerazione politica, l’ammissione che esiste una linea politica precisa, impressa al Paese da due anni, e che essa non risiede nelle Camere.

La data chiave fu il 10 ottobre 2011, quando la Camera bocciò per un voto il bilancio dello Stato presentato dal governo Berlusconi IV. Da allora, nel nero pece di una crisi che sembrava portarci alla bancarotta dell’Italia, è stato Napolitano ad aver dettato la strategia politica ed i suoi passaggi chiave, tramite i governi Monti e Letta.

Questa linea però, evidentemente, non tiene: due governi di breve durata, entrambi scarsamente popolari ed accusati di arrendevolezza di fronte alle durezze de “l’Europa”. E questo ci accomuna a tutto il fronte mediterraneo del Vecchio continente: Cipro, Grecia, Spagna e Portogallo. Al di là dei colori degli esecutivi locali (di centrodestra nella penisola iberica ed a Cipro; di grande coalizione con venature tecniche a Roma ed Atene), è la caratteristica a non cambiare: governi che dicono di voler alleviare la crisi ma sembrano impotenti di fronte sia ad essa sia alla linea del rigore. Fra questi Paesi, vi è stata una comunanza dei destini che non è mai però diventata una comunanza delle volontà.

Nei (primi?) cinque anni di questa crisi che qualcuno chiama “la Grande recessione”, non è emersa in nessuno di questi paesi mediterranei la capacità di opporre alla crisi stessa e alla strategia del rigore delle risposte alternative. Se anche qualcuno le avesse proposte, non avuto comunque convinto a sufficienza né i suoi concittadini né il resto d’Europa. Una crisi politica totale: un blackout della politica europea mediterranea, nel momento in cui essa ci sarebbe stato forse più bisogno.

Nei libri di storia delle medie è spesso marcata, per spiegare lo sviluppo delle civiltà più antiche, la linea entro la quale è possibile la coltivazione dell’olivo. Questo limite protostorico riemerge ora, a marcare il fronte dei peggiori.

Proseguendo in una geografia dell’Europa nella Grande recessione, e salendo dunque verso nord, in direzione dei più potenti, si incontrano in realtà prima altri due fronti politici che hanno dimostrato tutta loro debolezza.

Il primo è il fronte delle socialdemocrazie. SPD in Germania, SPÖ in Austria, Laburisti in Gran Bretagna: tutti in crisi piena, incapaci anche loro di proporre al declino economico continentale ed alla strategia del rigore una risposta forte e diversa. Dopo decenni di resa al “turbocapitalismo”, ora non sono in grado di vincere e convincere. Ancor più grave, se possibile, la responsabilità dei Socialisti francesi, i quali hanno di recente ottenuto oltralpe Presidente della Repubblica, Governo e Parlamento. Neppure François Hollande non è diventato il paladino realista di un’altra strategia per l’Europa, nonostante sia ormai trascorso quasi un anno e mezzo del mandato.

Il nostro Pierluigi Bersani, pur con i limiti che ha dimostrato perdendo la nostra ultima campagna elettorale, ci aveva visto giusto nel voler allacciarsi a questo fronte per cercare di rafforzarlo e rafforzarci. Ottima sicuramente l’idea, anche se si può dubitare che la sinistra europea avrebbe tratto proprio dal nostro arrivo quello che le manca per invertire il suo corso storico.

Il secondo fronte intermedio, anch’esso schiacciato ed incapace di produrre una strategia efficace, è marcato da due linee tanto antiche e spesso celate, quanto potenti. Se disegniamo su una carta prima il confine religioso fra protestanti e cattolici, poi quello linguistico fra neolatini e germanici, ne otteniamo una lunga striscia di prosperi paesi che vanno dalle Fiandre all’Austria. È il fronte del cattolicesimo germanico, renano ed alpino. Esso espresse i padri fondatori dell’Europa – Alcide De Gasperi (dal Tirolo), Robert Schuman (dalla Lorena) e Konrad Adenauer (dalla Renania) – che fra loro parlavano tedesco ed andavano a messa insieme.

Oggi i loro eredi dovrebbero ritrovarli in Herman Van Rompuy, fiammingo che è il “Presidente dell’Unione” ma che nulla sembra aver potuto di fronte al reale gioco dei poteri, o nel lussemburghese Jean-Claude Junker, per una vita presidente dell’Eurogruppo ma che ora ha dovuto cedere lo scettro. I popolari austriaci dell’ÖVP sembrano aver smarrito i risultati elettorali. I bavaresi della CSU governano sulla terra più prospera d’Europa, ma questo tesoro sembra possa essere usato solo a fini interni, in un’assurda gara a chi fa più il duro con la settentrionalissima Merkel.

Morale: nulla da questo filone culturale e politico sembra giocare all’altezza della sfida, e pare smarrito il glorioso passato. E quindi in questo quadro vanno lette le ripetute denunce sulla mancanza di una classe di politici cattolici all’altezza dei tempi, lanciate con forza da tanti: da diversi intellettuali sino ai papi Benedetto XVI (innumerevoli gli appelli negli anni della crisi) e Francesco. Ne avevo parlato anche qui qualche mese fa.

Ecco, allora, spiegata la forza della Merkel, recentemente vittoriosa. Non certo perché sia lei la reincarnazione di Bismarck, smanioso di egemonizzare l’intera Europa dinanzi alla Prussia. Piuttosto forse perché il fronte politico e culturale che geograficamente si colloca più a settentrione è stato in grado di produrre una strategia politica – quella del rigore – magari criticabile, ma effettiva ed argomentata, mentre noi altri siamo in crisi.

Al Nord, in alto nella carta geografica come nella posizione di potere, sembra riprendere forma una nuova Lega di Smalcalda, l’alleanza dei prìncipi protestanti tedeschi che nel 1531 si coalizzò contro papato ed imperatore. Allora quei sovrani fecero del loro luteranesimo non una questione di fede, ma di politica, di rapporti di forza (fiscale e militare). Qualche mese fa, sono stati i “paesi del Nord” ad infuriarsi contro il malcapitato bilancio dell’Unione Europea, per affermare il principio etico ed economico che i debiti non si condonano, e che chi ha fortuna nel lavoro è evidentemente nel giusto anche moralmente (e spiritualmente). Calvino, qualche secolo dopo.

È questo fronte del Nord, la “nuova” Lega di Smalcalda, ad essere la parte forte nella nostra Europa, come la vicenda del bilancio comunitario ha dimostrato. Ed ha il suo perno, la sua leader nella Cancelliera Angela Merkel, segno ormai conclamato di quello che appare arcigno egoismo economico-sociale agli occhi delle piazze infuriate ad Atene e Lisbona. Figlia di un pastore luterano, ha raccolto intorno a quella visione del mondo un partito, la CDU, che ha fatto la storia della Germania e dell’Europa intera. Sbaglia chi dice che la Merkel, o i tedeschi, siano anti-europei (e l’omogeneità del voto recente lo dimostra): sono europeisti sì, ma è la forma mentis ad essere diversa. Se di qualcuno frau Merkel è successore ideale, non è certo Hitler o i latifondisti prussiani; forse lo è invece di quel Filippo I d’Assia (a noi perlopiù ignoto) che fondò la Lega degli stati protestanti costringendo, dopo più di vent’anni di guerra, l’imperatore Carlo V a seppellire l’idea stessa di un Impero unitario, politicamente e religiosamente. Ora come allora, l’unità sepolta dall’affermazione del particolare, quando meritevole.

La nuova Smalcalda passa da Amsterdam, ben rappresentata da quel ministro J. Dijsselbloem che da meno di un anno è arrivato a capo dell’Eurogruppo e che ha già applicato sulla mediterranea (e bizantina) Cipro il suo rigore moral-economico. Ora proprio nei Paesi Bassi è il Governo, per bocca del Re in persona, a voler trasformare il welfare pubblico in una società partecipata, e di chiedere a chi può di cavarsela da sé. La chiamano “società della partecipazione”: sarebbe un welfare somigliante sempre più alle istituzioni caritative ed alla filantropia.

Da qui questo fronte del Nord raccoglie anche il finlandese Olli Rehn, commissario alle finanze dell’UE, luterano anche lui, finora più noto per i suoi richiami a doveri e discipline che non per aver progettato in un momento di crisi nuovi modi per affrontarla. E passa infine da Londra, dal governo conservatore di David Cameron, recalcitrante e particolarista fino all’esasperazione, che del chiamarsi fuori dagli oneri di un bilancio comune ha fatto un bandiera.

Se dunque vogliamo ribaltare l’Europa del rigore e sconfiggere con la politica questa Grande recessione, occorrerà prima guardarci in casa, lavorare sodo e costruire azioni degne di farci vivere questo tratto di storia non come un’imprevedibile catastrofe naturale, ma come qualcosa che anche noi in parte possiamo determinare.

Coraggio! Al lavoro!

Chi ha voluto il governo Letta? Noi!

È inutile che ci prendiamo in giro. Il governo Letta non è una forzatura, un colpo improvviso, è il naturale sviluppo degli ultimi (almeno) sei mesi di gestione politica del centrosinistra. Con buona pace dei miei amici retroscenisti o complottisti – per i quali c’è sempre un oscuro piano di D’Alema, della BCE o dello IOR dietro ad ogni starnuto – il governo «d’intesa politica» PD-PdL è la conseguenza di sei mesi di disastro del gruppo dirigente vicino a Bersani. Più alcune varianti: prima fra tutte, Sua Maestà il Presidente.

Fase 1: la difesa dell’ortodossia. Il primo anello della catena risale ad ottobre 2012. Proprio nei giorni in cui il PD compiva cinque anni, trascorsi (nel bene o nel male) dalle sue primarie “fondative”, dove la parte del leone la fece non tanto il vincitore di allora (Veltroni), quanto l’enorme popolo accorso a partecipare, decidere, impegnarsi, unito a prescindere dal candidato votato. A cinque anni di distanza, il panorama non poteva essere più diverso, sia per la sostanza politica della competizione, sia per lo spirito con cui vi si partecipava.

Un’immagine rende plasticamente l’idea dello spirito che ha aleggiato sulle primarie 2012: i poveri volontari del PD impegnati, circolo per circolo in tutt’Italia, in un estenuante e burocratico lavoro di pre-registrazione degli intenzionati a votare. Utilità? Nessuna. E se ne sono accorti subito tutti che l’operazione – esaltante come lavorare alla polizia mortuaria – non serviva assolutamente a nulla. Se non a diffondere sotto traccia l’idea che il Partito non è per tutti, ma «per chi ci crede»: cioè, detto in altre parole, che gli elettori non sono uguali perché chi non è un elettore fedele, mobilitato, impegnato (e possibilmente anziano) vale un po’ meno e, se vuole, quella domenica può anche farsi un giro al mare.

Quella scena dei poveri volontari estenuati da un lavoro inutile ci dà l’idea di quale fosse l’intento di fondo emerso dalle primarie 2012: difendere l’ortodossia. E così fra ottobre e novembre scorsi siamo stati costretti ad assistere ad una campagna per le primarie da incubo: un Partito-Sant’Uffizio da una parte, il cui intento esplicito era conservare la propria purezza, contro un gruppo di eretici perfettamente a loro agio nella parte. «Fascistoidi!» contro «Scagnozzi!». Nessuna delle due parti ha fatto molto per evitare questo clima da crociata interna, poiché era congeniale agli uni vestire i panni degli inquisitori, e agli altri quelli delle vittime.

Il risultato – frutto della pura logica, neanche della politica – è stato duplice, e si è ritorto (ovviamente) contro a chi l’aveva ordito. Il primo risultato è stato che, vinte le primarie, non c’era più motivo di fare campagna elettorale: tanto l’obiettivo (conservare l’ortodossia) era già stato raggiunto. Qualcuno ha detto – e ha fatto bene – che se si fosse speso per la campagna elettorale “vera” un decimo delle energie spese per quella delle primarie, le cose per il PD sarebbero andate diversamente. Ciò è verissimo! Ma il motivo non è stato l’insipienza, l’inettitudine o qualche “intelligenza con il nemico”: il reale obiettivo era già stato raggiunto, per cui si credeva che da lì in avanti tutto sarebbe proceduto gloriosamente verso il sol dell’avvenir. Anche se c’erano ottimi motivi per votare Bersani, senza campagna elettorale il PD che doveva trionfare, ha invece perso.

La seconda conseguenza è forse peggiore della prima. In un partito profondamente malato di «feudalizzazione» (così Bersani stesso), chi ha orchestrato i toni delle primarie-crociata ha finito per avvitare le tifoserie su loro stesse, “caricando a molla” i militanti in buona fede (di ambo i lati) su posizioni più intransigenti dell’intransigenza. E adesso è troppo facile lamentarsi di un «Partito diviso» e delle «correnti», quando fino a ieri divisioni e appartenenze particolari sono state usate come funzionali all’obiettivo!

Fase 2: perdere elezioni e dopo-elezioni. Perse le elezioni (poiché altre parole giuste non ce ne sono), siamo riusciti a perdere anche il dopo. Per carità, era difficilissimo e nessuno di noi avrebbe voluto essere al posto del povero Bersani. Però il risultato è stato quello, ed il motivo è che il PD è stato tronfio, vanaglorioso. Si è perso perché ci si è comportati da vincitori. Nonostante la débâcle elettorale, nessuno si è scomposto. Anzi, ci si è presentati da Napolitano reclamando come fosse dovuto un incarico di governo che – prevedibilmente – è naufragato in mezza giornata.

Oltre il danno la beffa, cioè la straordinaria strategia di Grillo per umiliare il PD (e fidelizzarsi così la consistente fetta di suo elettorato da lì proveniente). Un Grillo che ha costretto il PD a mendicare il suo assenso, fino alla desolante ed umiliante consultazione «in diretta streaming» fra Bersani, Crimi e Lombardi. Un Grillo che ha opposto un muro di “no!” schiaffeggiati sulla faccia dei suoi stessi parlamentari e di Bersani, salvo poi fare il finto pentito con la candidatura Rodotà. Il cui unico scopo – perfettamente raggiunto e assolutamente coerente – era quello di spaccare il PD. Perché delle due l’una: o Grillo è scemo, e ha passato gli ultimi anni e mesi (e in particolare le ultime settimane) ad avversare ed ostacolare il PD salvo poi ricredersi in modo folgorante ed offrire il ramoscello d’ulivo Rodotà, oppure Grillo è intelligente e quest’ultima candidatura era coerente con le intenzioni precedenti. Come ho già avuto modo di dire, secondo me Grillo non è scemo. E quindi…

Fase 3: Sua Maestà il Presidente. Franato il PD sotto i suoi stessi colpi, ecco dietro l’angolo Berlusconi pronto a fare la parte del vincitore…per abdicazione del vincitore precedente. E quindi così nasce la rielezione di Giorgio Napolitano, che – dopo un primo mandato già molto forte, amato e significativo – era l’unico nome in grado di fermare l’auto-dissanguamento democratico e di sbloccare una situazione già da troppo incancrenita.

La rielezione è stata – già nelle sue immagini – altamente significativa. Un Presidente eletto perché insostituibile che, senza picchetti né cerimonie, discende dal colle del Quirinale, va, bastona il Parlamento intero e risale al suo Palazzo. Tutti gli altri annichiliti. Giorgio ora è re e comanda lui. Perché ha un’arma potentissima, ben più potente della minaccia di scioglimento delle Camere. Quelle delle proprie dimissioni. Sì, perché se si dimette lui… questi qua chi eleggono?

Napolitano, con la sua rielezione e la nomina del governo Letta, ha risollevato una politica fradicia appoggiandola su uno scoglio asciutto e stabile. Ma può farla ripiombare fra le onde e i cavalloni sfilandosi lui, quando lo volesse, e riprecipitando tutta la potestà di decidere in un Parlamento dominato da forze dimostratesi incapaci di farlo. Che si esporrebbero così (di nuovo) al pubblico ludibrio.

In tutto ciò, il bravo Enrico Letta – per il quale fin da tempi non sospetti c’era da augurarsi un suo ingresso a Palazzo Chigi – è riuscito bene nell’unica impresa che poteva compiere: rendere meno peggiore possibile un boccone indigeribile per noi elettori del PD. Lo ha fatto con un governo fatto – per la nostra parte – di nomi ottimi e finalmente diversi dalla fin troppo lunga schiera che ci ha condotti a questa desolazione. Per l’altra parte, almeno, sono fuori dal Governo i nomi più amari e più odiati. Nel complesso, ci tocca di dire che “piuttosto che niente…”.

Adesso, però, si prefigura un altro passo. Perché il PD e il centrosinistra hanno sofferto troppo per rimanere intonsi. Si sono troppo esercitati sul pensiero unico di conservare la “purezza di sinistra” per non caderne vittime. Qualcuno uscirà, sbattendo la porta ed andando incontro ad un Vendola ghiotto che già imbandisce la tavola. Peccato, perché ci credevamo.

Edo

Viva le elezioni… Sì, ma quali?

Manca un mese, poco più. Siamo arrivati qui, in brevissimo tempo, soprattutto a causa della scarsa propensione di un certo professore varesino ad essere trasformato in un arrosto che un PdL che, né maggioranza né opposizione, avrebbe cercato di rosolare ben bene. Le elezioni sono dunque il ritorno al “via” del giostra della politica, che dovrà ripassare dal vaglio del “popolo sovrano” e certo ne uscirà cambiata. «Viva le elezioni!» quindi? Sì, certo. Ma quali? Come saranno e cosa cambieranno? Sono domande che, onestamente, varranno per l’Italia molto di più del proverbiale milione di dollari.

La gara si prospetta fondamentalmente a cinque, con uno spettro di particolarità molto più ampio rispetto al passato. È passata un’era geologica da quando, nel 2006, le due coalizioni di Prodi e Berlusconi sommate totalizzarono il 99,55% dei voti: più che tutto, tuttissimo!

Se mi concedete un buon margine di approssimazione, credo si possa dire che nella storia dei parlamenti europei, quando sono peggiorate le condizioni economico-sociali di un Paese, il suo parlamento si è sempre ritrovato più frammentato di prima (potremmo spaziare da Weimar alle ultime elezioni britanniche o greche). L’Italia, quindi, non farà eccezione alla regola: la crisi frammenta, mette le persone spesso le une contro le altre, e ciò si traduce in un quadro politico analogo quando le stesse persone hanno occasione di votare.

Il punto politico di queste elezioni sarà se lo schieramento di maggioranza relativa sarà capace di diventare in parlamento maggioranza assoluta, o se – invece – la somma della minoranze (gli altri) sarà così alta da impedire l’emerge di un vincitore. Ovvero: lo schieramento che si prefigura come più grosso (quello guidato da Bersani) riuscirà anche ad essere vittorioso, ad ottenere consenso sufficiente per esprimere un governo, oppure il risultato sarà talmente frastagliato da darci un “hung Parliament”, un Parlamento “appeso” alle piogge monsoniche di coalizioni post-voto? Ai posteri (che siamo noi, fra un mese e mezzo) l’ardua sentenza!

Dicevo di una gara a cinque: il centrosinistra di Bersani, il centro di Monti, la destra di Berlusconi e Maroni, il Movimento Cinque Stelle di Grillo e la Rivoluzione Civile di Ingroia. Cerco brevemente di dare un’inquadrata alle formazioni. E mi permetto una previsione su cui, nel caso, sarà facile sbugiardarmi.

Ha ragione il prof. Monti quando dice che sarà l’Europa, e l’approccio con essa, ad essere il vero motivo di distinzione fra le formazioni politiche e le loro identità. Dico che ha ragione perché penso che un’analisi onesta, ancorché parziale, ci porta a dividere i cinque gareggianti in due aree. Questo non cancella certo l’antica distinzione destra-sinistra; piuttosto la integra. Da una parte, dunque, ci sarà chi è votato da una larga fetta di elettorato che, pur avendo tanti punti di differenza, ne ha anche almeno uno in comune: il rifiuto per le conseguenze nella finanza pubblica dell’adesione a (questa) Unione Europea. Questo tratto accumuna (pur con grandi differenze reciproche) Berlusconi, Maroni, Grillo ed Ingroia, i quali – da posizioni in partenza anche assai diverse – arrivano tutti a quella conclusione. Sono i populisti. È il campo della protesta sempre, di chi vede complotti ovunque (dal signoraggio bancario, al ruolo di Frau Bundeskanzlerin), di chi vorrebbe «un’Europa diversa» da quella possibile (e quindi, di fatto, non la vorrebbe). È il pubblico di Santoro più quello di MattinoCinque; i lettori del “Fatto” e di “Libero”.

Dall’altra parte, la sinistra di Bersani ed il centro di Monti hanno, rispetto a quel punto, l’atteggiamento inverso: accettano entrambi il far parte dell’Unione Europea e ciò che esso comporta oggi per noi, mentre marcano la differenza fra loro su quale debba essere il grado di modifiche “da dentro” che devono essere fatte alla politica economica dell’UE (oltre che ovviamente su altre questioni diverse). Sono i riformisti. Questo è il campo dove si rinuncia all’agio di protestare, per prendersi la fatica di governare; dove si accetta l’Europa com’è oggi, per poterla forgiare diversa domani. È, lasciatemi dire, il pubblico di Fabio Fazio, Enrico Mentana e Bianca Berlinguer; i lettori del “Corriere” e di “Repubblica”.

Al quinto posto, plausibilmente, arriverà il più giovane degli schieramenti che si sottopongono al voto, ovvero il movimento di “Rivoluzione civile” guidato (a caratteri cubitali) dal magistrato siciliano Antonio Ingroia. La proposta è arrivata molto tardiva, però va ad intercettare un’area di consenso non piccola: tutto ciò che il centrosinistra ha perso per strada (o forse non ha mai conquistato) negli ultimi due decenni, a causa del suo qualificarsi essenzialmente come forza “di governo” (o, direbbero alcuni, governista). Il movimentismo, la protesta organizzata, le posizioni di critica di “o sistema” dalla testa ai piedi sono (e forse saranno sempre) incompatibili con forze che hanno scelto non la protesta, ma l’azione di governo, come loro modo di incidere nella società.

Secondo me si giocheranno la finale terzo-quarto posto i due più diversi di tutti: il Movimento Cinque Stelle di Grillo e la coalizione centrista del senatore Monti. Il movimento di Grillo sceglie, per vocazione, di castrarsi e non rivolgere neppure la parola a quegli elettori (la metà del totale) privi di un collegamento internet. Inoltre, patisce la concorrenza da “voto utile” verso il PD, dalla resurrezione politica di Berlusconi e dalla “salita in politica” del villoso pm palermitano.

Grillo dunque se la gioca con il più diverso da lui: Mario Monti. Lo scopo dell’impegno del premier uscente è molto chiaro, evidenziato dal modo e dai tempi con cui essa è maturata: fagocitare, nel medio periodo, l’elettorato del PdL perché si crei una forza politica liberale ed europeista. Nel breve periodo, però, per poter nascere, lo schieramento di Monti si prefigge di conquistare la fiducia elettorale anche di tutti quelli che, pur essendo convinti di una scelta europea ed accettandone le conseguenze, non si sentono di dare il proprio voto alla coalizione “eurosocialista” guidata da Bersani. Da qui nasce l’apparente contraddizione di Monti, che sembra avercela con un po’ con tutti e due (Bersani e Berlusconi), ma nel contempo esplicita la propria differenza più verso il Cavaliere (essendo quello il suo avversario sostanziale).

Al secondo posto – proseguo nel mio azzardo – si potrebbe piazzare l’alleanza maldestra di chi conosciamo da sempre. Il partito di Berlusconi e quello guidato da Maroni pagano ancora le conseguenze dei loro terribili anni di governo, oltre che (almeno da parte leghista) lo scotto dell’attuale matrimonio d’interesse fra le due forze, da nessuna delle due accolto con gioia. Tuttavia la campagna elettorale dell’ex premier ha del miracolistico e sta volando. Questo, francamente, più che un merito dell’interessato mi pare un (grave) demerito dei nostri concittadini che gli danno credito. Faranno la fine del carbonaro ne “il Marchese del Grillo”, ma contenti loro…

Da ultimo, il mio partito: il PD. Attorno ad esso si è formata, nel tempo e con un paziente lavoro di Bersani, una coalizione di centrosinistra, che plausibilmente arriverà prima. Al suo interno, il “recupero” di Vendola in un’ottica di governo sembra essere ben riuscito. Il problema vero è: arriverà prima, ma prima quanto? La maggioranza parlamentare andrà a questo schieramento, oppure alla somma di tutti gli altri? La vera sfida, checché ne dicano diversi diretti interessati, non fra Bersani ed uno degli altri concorrenti: è una partita Bersani-resto del mondo. In bocca al lupo, Pierluigi!

Insieme a quello di tanti altri, anche il mio voto andrà al PD, perché credo che sia la forza che ad oggi meglio congiunge la prospettiva europea (unica vera linea di futuro costruibile dalla/per la mia generazione e per le seguenti) con l’esigenza impellente della solidarietà in mezzo a questa crisi. Questo non lo rende un partito perfetto, anzi! Quello di oggi è un PD molto diverso dalla sua fondazione, e non sempre migliorato; rimane tuttavia l’offerta politica migliore sul campo. Confido intercetti molta domanda!

La tempesta dell’Immacolata

Tento di fare una modesta analisi di quanto accaduto nello scorso finesettimana, senza alcuna pretesa di esaustività.

Sabato a ora di pranzo un telegiornale sentenziava, a proposito delle previsioni meteo fatte nei giorni precedenti, che “la temuta tempesta dell’Immacolata alla fine non c’è stata”. Sentenza incauta, perché ciò che forse non è accaduto nel clima meteorologico, si è avverato in quello politico-istituzionale della nostra Italia. Una vera tempesta!

Sulla meschinità della mossa di Berlusconi, formalizzata venerdì alla Camera da un Alfano un po’ scodinzolante e un po’ bastonato, si sono già spesi tutti i commentatori italiani e stranieri. Non c’è molto bisogno di ulteriori definizioni per qualificare il Cavaliere né la mossa da lui fatta.

La contromossa di Mario Monti, gran signore, è stata, seppur triste, corretta e geniale. Ha rovesciato addosso al PdL il tavolo, e con lui l’intera responsabilità della crisi di governo e dei suoi effetti nazionali, internazionali e finanziari. Se il Cavaliere, da un lato, avrebbe voluto far proprio il risultato elettorale di scaricare Monti, lasciando tutte le conseguenze del gesto sul groppone dell’esecutivo, il Professore ha capovolto le conseguenze.

Come ha detto molto bene Mario Sechi su “il Tempo” di ieri:

Appoggiare il governo Monti per un anno, votando quasi tutte le fiducie, e poi fare finta di staccare le spina con un surreale “penultimatum” era un giochetto che poteva riuscire in una riunione con Briatore e Samorì, ma se giochi pesante con Giorgio Napolitano e Mario Monti il minimo che rischi è di restare non con il cerino, ma con il cero in mano.

La somma delle due mosse di Berlusconi e Monti mi pare che produca una serie di conseguenze a catena, molte probabilmente non volute dal primo dei due.

In primo luogo, il PdL si è inimicato Monti in modo grave e definitivo. Se prima si poteva profilare una sfida elettorale a due Bersani~Berlusconi, ora quest’ultimo ha un avversario in più, l’attuale premier, assai più rischioso per il bacino elettorale del PdL che non il segretario democratico.

In secondo luogo, la rottura totale con Monti e con quanto egli rappresenta (liberalismo popolare ed europeista, vicinanza ed amicizia con chi rappresenta o detiene le grandi leve del potere internazionale) “schiaccia” il PdL ri-berlusconizzato in un’area elettorale francamente un po’ affollata. Di offerte politiche anti-sistema ed anti-europee ce ne sono già, rappresentate dalla Lega Nord e dal Movimento cinque stelle: saranno questi i veri concorrenti di Berlusconi ora, ben più credibili e più rinnovati di lui (discorso che vale, seppur in misura diversa, sia per il partito di Maroni sia per quello di Grillo). Senza contare le offerte politiche di contenuto parzialmente analogo, ma più spostate a sinistra. Pensare che, da qui, il PdL possa raggiungere un consenso maggioritario è puramente illusorio (e non c’è “corriamo per vincere!” che tenga).

In terzo luogo, la rottura del patto di non-aggressione alla base del Governo Monti, se da un lato slega le mani al PdL, dall’altro le slega anche a Monti. Almeno potenzialmente. Un’esplicita candidatura del professore varesino alla testa di uno schieramento euro-liberal-popolare (centrista) a chi gioverebbe? E chi danneggerebbe?
Un’offerta politica di quel genere sottrarrebbe assai pochi voti al centrosinistra bersaniano, compattato e rinforzato dalle belle primarie di qualche settimana fa. Il profilo politico dello schieramento di centrosinistra è infatti assai diverso, soprattutto nella sua base. Al più, potrebbe essere attratta verso un’ipotesi del genere una parte dell’elettorato di centrosinistra che aveva scelto Renzi, ma questo accadrà se e solo se Bersani non sarà abbastanza capace di dare un profilo di serietà ed affidabilità della propria proposta di governo. Il rischio mi sembra marginale, per le qualità umane e politiche del soggetto.
Una candidatura Monti danneggerebbe molto di più il centrodestra, sottraendo definitivamente dall’orbita berlusconiana quella fetta di elettorato che sicuramente non si riconosce nel centrosinistra, ma neppure è disposto a seguire teorie politiche estreme, anti-sistema e francamente un po’ assurde, come quelle su cui il PdL ha scelto di schiacciarsi.

La storia è ancora tutta da scrivere, ma mi pare si possa dire che la “tempesta dell’Immacolata” rischia di diventare un tifone…nel giardino di Arcore!

Qui il link all’editoriale de “il Tempo” di ieri: http://www.iltempo.it/prima_pagina/2012/12/09/1379982-fiasco_delle_liberta.shtml#.UMRssnUXDCU.mailto

E qui quello del “Corriere della Sera” dello stesso giorno: http://www.corriere.it/politica/12_dicembre_09/de-bortoli-monti-lascia-crisi-aperta_9c66ad96-41cf-11e2-ae8d-6555752db767.shtml