E ci risiamo! Altro giro, altro regalo: il PdL fa cadere due governi in dieci mesi. Dopo la “tempesta dell’Immacolata” che falcidiò l’anno scorso il governo Monti, ora è il turno di quello Letta.
Più che un “no” ai due moderati europeisti che hanno guidato questi esecutivi cui lo stesso PdL pure ha partecipato, è sempre più chiaro che si tratta di un “no” alla linea politica. Un “no” alla linea Napolitano, il vero leader politico che ha diretto le principali vicende del Paese per il tramite di quei due governi, molto “suoi”. Talmente tanto suoi che Enrico Letta arrivò a dire, lo scorso 20 agosto alla tv pubblica austrica:
“Questo Governo deve la sua fiducia al Presidente della Repubblica e al Parlamento, e il Governo lavorerà fino a quando la fiducia del Parlamento e del Presidente della Repubblica saranno confermate”.
Capo dello Stato e Parlamento alla pari, senza differenze, nel rapporto col Governo. Per gli studiosi, il distillato del semipresidenzialismo, come il Reichspräsident della Repubblica di Weimar. Cercando invece di fare qualche considerazione politica, l’ammissione che esiste una linea politica precisa, impressa al Paese da due anni, e che essa non risiede nelle Camere.
La data chiave fu il 10 ottobre 2011, quando la Camera bocciò per un voto il bilancio dello Stato presentato dal governo Berlusconi IV. Da allora, nel nero pece di una crisi che sembrava portarci alla bancarotta dell’Italia, è stato Napolitano ad aver dettato la strategia politica ed i suoi passaggi chiave, tramite i governi Monti e Letta.
Questa linea però, evidentemente, non tiene: due governi di breve durata, entrambi scarsamente popolari ed accusati di arrendevolezza di fronte alle durezze de “l’Europa”. E questo ci accomuna a tutto il fronte mediterraneo del Vecchio continente: Cipro, Grecia, Spagna e Portogallo. Al di là dei colori degli esecutivi locali (di centrodestra nella penisola iberica ed a Cipro; di grande coalizione con venature tecniche a Roma ed Atene), è la caratteristica a non cambiare: governi che dicono di voler alleviare la crisi ma sembrano impotenti di fronte sia ad essa sia alla linea del rigore. Fra questi Paesi, vi è stata una comunanza dei destini che non è mai però diventata una comunanza delle volontà.
Nei (primi?) cinque anni di questa crisi che qualcuno chiama “la Grande recessione”, non è emersa in nessuno di questi paesi mediterranei la capacità di opporre alla crisi stessa e alla strategia del rigore delle risposte alternative. Se anche qualcuno le avesse proposte, non avuto comunque convinto a sufficienza né i suoi concittadini né il resto d’Europa. Una crisi politica totale: un blackout della politica europea mediterranea, nel momento in cui essa ci sarebbe stato forse più bisogno.
Nei libri di storia delle medie è spesso marcata, per spiegare lo sviluppo delle civiltà più antiche, la linea entro la quale è possibile la coltivazione dell’olivo. Questo limite protostorico riemerge ora, a marcare il fronte dei peggiori.
Proseguendo in una geografia dell’Europa nella Grande recessione, e salendo dunque verso nord, in direzione dei più potenti, si incontrano in realtà prima altri due fronti politici che hanno dimostrato tutta loro debolezza.
Il primo è il fronte delle socialdemocrazie. SPD in Germania, SPÖ in Austria, Laburisti in Gran Bretagna: tutti in crisi piena, incapaci anche loro di proporre al declino economico continentale ed alla strategia del rigore una risposta forte e diversa. Dopo decenni di resa al “turbocapitalismo”, ora non sono in grado di vincere e convincere. Ancor più grave, se possibile, la responsabilità dei Socialisti francesi, i quali hanno di recente ottenuto oltralpe Presidente della Repubblica, Governo e Parlamento. Neppure François Hollande non è diventato il paladino realista di un’altra strategia per l’Europa, nonostante sia ormai trascorso quasi un anno e mezzo del mandato.
Il nostro Pierluigi Bersani, pur con i limiti che ha dimostrato perdendo la nostra ultima campagna elettorale, ci aveva visto giusto nel voler allacciarsi a questo fronte per cercare di rafforzarlo e rafforzarci. Ottima sicuramente l’idea, anche se si può dubitare che la sinistra europea avrebbe tratto proprio dal nostro arrivo quello che le manca per invertire il suo corso storico.
Il secondo fronte intermedio, anch’esso schiacciato ed incapace di produrre una strategia efficace, è marcato da due linee tanto antiche e spesso celate, quanto potenti. Se disegniamo su una carta prima il confine religioso fra protestanti e cattolici, poi quello linguistico fra neolatini e germanici, ne otteniamo una lunga striscia di prosperi paesi che vanno dalle Fiandre all’Austria. È il fronte del cattolicesimo germanico, renano ed alpino. Esso espresse i padri fondatori dell’Europa – Alcide De Gasperi (dal Tirolo), Robert Schuman (dalla Lorena) e Konrad Adenauer (dalla Renania) – che fra loro parlavano tedesco ed andavano a messa insieme.
Oggi i loro eredi dovrebbero ritrovarli in Herman Van Rompuy, fiammingo che è il “Presidente dell’Unione” ma che nulla sembra aver potuto di fronte al reale gioco dei poteri, o nel lussemburghese Jean-Claude Junker, per una vita presidente dell’Eurogruppo ma che ora ha dovuto cedere lo scettro. I popolari austriaci dell’ÖVP sembrano aver smarrito i risultati elettorali. I bavaresi della CSU governano sulla terra più prospera d’Europa, ma questo tesoro sembra possa essere usato solo a fini interni, in un’assurda gara a chi fa più il duro con la settentrionalissima Merkel.
Morale: nulla da questo filone culturale e politico sembra giocare all’altezza della sfida, e pare smarrito il glorioso passato. E quindi in questo quadro vanno lette le ripetute denunce sulla mancanza di una classe di politici cattolici all’altezza dei tempi, lanciate con forza da tanti: da diversi intellettuali sino ai papi Benedetto XVI (innumerevoli gli appelli negli anni della crisi) e Francesco. Ne avevo parlato anche qui qualche mese fa.
Ecco, allora, spiegata la forza della Merkel, recentemente vittoriosa. Non certo perché sia lei la reincarnazione di Bismarck, smanioso di egemonizzare l’intera Europa dinanzi alla Prussia. Piuttosto forse perché il fronte politico e culturale che geograficamente si colloca più a settentrione è stato in grado di produrre una strategia politica – quella del rigore – magari criticabile, ma effettiva ed argomentata, mentre noi altri siamo in crisi.
Al Nord, in alto nella carta geografica come nella posizione di potere, sembra riprendere forma una nuova Lega di Smalcalda, l’alleanza dei prìncipi protestanti tedeschi che nel 1531 si coalizzò contro papato ed imperatore. Allora quei sovrani fecero del loro luteranesimo non una questione di fede, ma di politica, di rapporti di forza (fiscale e militare). Qualche mese fa, sono stati i “paesi del Nord” ad infuriarsi contro il malcapitato bilancio dell’Unione Europea, per affermare il principio etico ed economico che i debiti non si condonano, e che chi ha fortuna nel lavoro è evidentemente nel giusto anche moralmente (e spiritualmente). Calvino, qualche secolo dopo.
È questo fronte del Nord, la “nuova” Lega di Smalcalda, ad essere la parte forte nella nostra Europa, come la vicenda del bilancio comunitario ha dimostrato. Ed ha il suo perno, la sua leader nella Cancelliera Angela Merkel, segno ormai conclamato di quello che appare arcigno egoismo economico-sociale agli occhi delle piazze infuriate ad Atene e Lisbona. Figlia di un pastore luterano, ha raccolto intorno a quella visione del mondo un partito, la CDU, che ha fatto la storia della Germania e dell’Europa intera. Sbaglia chi dice che la Merkel, o i tedeschi, siano anti-europei (e l’omogeneità del voto recente lo dimostra): sono europeisti sì, ma è la forma mentis ad essere diversa. Se di qualcuno frau Merkel è successore ideale, non è certo Hitler o i latifondisti prussiani; forse lo è invece di quel Filippo I d’Assia (a noi perlopiù ignoto) che fondò la Lega degli stati protestanti costringendo, dopo più di vent’anni di guerra, l’imperatore Carlo V a seppellire l’idea stessa di un Impero unitario, politicamente e religiosamente. Ora come allora, l’unità sepolta dall’affermazione del particolare, quando meritevole.
La nuova Smalcalda passa da Amsterdam, ben rappresentata da quel ministro J. Dijsselbloem che da meno di un anno è arrivato a capo dell’Eurogruppo e che ha già applicato sulla mediterranea (e bizantina) Cipro il suo rigore moral-economico. Ora proprio nei Paesi Bassi è il Governo, per bocca del Re in persona, a voler trasformare il welfare pubblico in una società partecipata, e di chiedere a chi può di cavarsela da sé. La chiamano “società della partecipazione”: sarebbe un welfare somigliante sempre più alle istituzioni caritative ed alla filantropia.
Da qui questo fronte del Nord raccoglie anche il finlandese Olli Rehn, commissario alle finanze dell’UE, luterano anche lui, finora più noto per i suoi richiami a doveri e discipline che non per aver progettato in un momento di crisi nuovi modi per affrontarla. E passa infine da Londra, dal governo conservatore di David Cameron, recalcitrante e particolarista fino all’esasperazione, che del chiamarsi fuori dagli oneri di un bilancio comune ha fatto un bandiera.
Se dunque vogliamo ribaltare l’Europa del rigore e sconfiggere con la politica questa Grande recessione, occorrerà prima guardarci in casa, lavorare sodo e costruire azioni degne di farci vivere questo tratto di storia non come un’imprevedibile catastrofe naturale, ma come qualcosa che anche noi in parte possiamo determinare.
Coraggio! Al lavoro!