Il nuovo Senato: una camera dell’Europa

Quella che segue è una mia riflessione tecnica, ed estramente sintetica, sulle competenze del nuovo Senato italiano, così come disegnato dalla riforma che andremo a votare nel prossimo autunno.

1) Il contenuto: un Senato fortemente europeo

La funzione del nuovo Senato quale sede di raccordo fra gli «enti costitutivi della Repubblica» (Stato, Regioni ed Enti locali) e l’Unione europea appare un aspetto tanto saliente quanto trascurato della riforma costituzionale. In realtà questa riforma è il primo tentativo di costituzionalizzare l’appartenenza europea dell’Italia, ed in particolare di costituzionalizzare i meccanismi pratici di appartenenza. Come ha scritto il sen. Roberto Cociancich (capogruppo PD in Commissione politiche europee), il nuovo Senato sarà un’istituzione che prende atto dell’esistenza di tre livelli legislativi (Regioni, Stato, UE) e avrà il compito di tenerli raccordati.

In base al nuovo quinto comma dell’articolo 55 della Costituzione il Senato della Repubblica «rappresenta le istituzioni territoriali». Il comma individua poi le funzioni del Senato, fra le quali, a seguito delle varie modifiche apportate, ci sono:

– concorso «all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea»;

– partecipazione «alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea»;

– verifica dell’ «impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori».

Si tratta quindi di competenze che danno al nuovo Senato non solo ruolo legislativo, ma un attivo ruolo politico anche oltre il circuito dell’approvazione di atti normativi: in questo senso finalmente trovano spazio nella Costituzione italiana concetti quali la formazione ed attuazione delle politiche europee e la verifica dell’impatto di queste sui territori.

Ulteriori spazi in questo senso sono previsti anche col nuovo articolo 80 della Costituzione, che prevede per le «leggi che autorizzano la ratifica dei trattati relativi all’appartenenza dell’Italia all’Unione europea» un’approvazione bicamerale, e quindi un pieno concorso del nuovo Senato in questa materia, su piano di parità con la Camera dei deputati. Questa stessa importanza dell’assemblea senatoriale è conservata dall’articolo 70 anche per la «legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea».

Alla luce di questi elementi, si può dire a ragion veduta che il nuovo Senato sarà una Camera dell’Europa, secondo un modello che possiamo definire pienamente “italiano” per la sua peculiarità, ma altrettanto “europeo” per gli eventi richiami ad altre esperienze costituzionali. In particolare possiamo individuare due punti salienti:

  • attraverso il nuovo Senato le autonomie locali potranno intervenire direttamente nel procedimento legislativo, su un piano di parità con la Camera dei deputati, in tutti i principali atti normativi che attengono l’appartenenza europea dell’Italia;
  • il nuovo Senato sarà inoltre anche sede di un’elaborazione politica del raccordo fra Stato, autonomie locali ed Unione europea, oltreché della sua verifica.

Entrambe queste dimensioni, per la loro innovatività, richiedono una classe dirigente locale e nazionale che si dimostri all’altezza.

I poteri e la composizione del nuovo Senato saranno infatti il primo caso in Italia di compenetrazione fra i diversi livelli della rappresentanza: se prevarrà un meccanismo di cooperazione inter-istituzionale avremo di fronte un caso di successo, ma se si comincerà ad approfittare di questi spazi, dove Camera (legata al Governo nazionale) e Senato (legato ai risultati elettorali regionali) sono alla pari, per mettersi i bastoni fra le ruote, allora sarà facile constatare l’insuccesso di questo modello. La riforma dà infatti per sottinteso un elevato livello di lealtà e collaborazione fra diversi livelli di governo (e quindi possibili diverse maggioranze politiche), che solo la storia ci consentirà di verificare.

Altrettanto innovativa è la seconda dimensione, quella politica e non normativa: a differenza che in altri Paesi ed al livello dell’Unione, in Italia l’attività parlamentare sembra troppo spesso esaurirsi in quella di produzione di leggi. Il nuovo Senato chiama anche qui ad un salto qualitativo della democrazia parlamentare, verso funzioni che appaiono più moderne ed europee, ma il cui successo dipenderà senza dubbi dalla maturità delle classi politiche future.

2) Uno sguardo oltre confine: regionalizzazione ed europeizzazione delle camere alte

Quella della specializzazione europea di una “camera delle autonomie locali” non è certamente un’invenzione italiana. Se dal punto di vista della nuova composizione del Senato italiano un’analogia non trascurabile può rinvenirsi nel Senato francese (art. 24 della Costituzione del 1958) ed ancor più nel Consiglio federale austriaco (artt. 34-35 della Legge costituzionale federale), da quello della compartecipazione di una camera parlamentare delle autonomie al processo decisionale nazionale in materia europea la comparazione più significativa si può fare con i modelli tedesco ed austriaco.

Un parallelo con il Bundesrat tedesco si può fare non tanto per la composizione (è infatti una camera alta formata dai soli Governi dei Länder) quanto per la specializzazione europea. Dopo alcune riforme costituzionali (la più importante delle quali del 1992) sono stati introdotti specifiche competenze della camera regionale tedesca in materia europea:

– un dovere d’informazione del Governo federale verso il Bundesrat rispetto agli affari inerenti l’Unione europea;

– un procedimento di coinvolgimento preventivo del Bundesrat nella formazione della posizione nazionale tedesca sulle specifiche questioni a livello europeo;

– la necessità dell’approvazione del Bundesrat nei procedimenti legislativi che riguardano le modalità di partecipazione della Germania all’Unione;

– la creazione di un’apposita formazione europea del Bundesrat – la «Europakammer» – specializzata per i temi europei e le cui decisioni valgono come quelle dell’intero organo.

Le competenze e la grande specializzazione accumulate dal Bundesrat tedesco per le questioni europee fa sì che possa parlare di un pieno coinvolgimento dei governi regionali tedeschi a livello europeo, insieme (né oltre, né contro) al Governo nazionale, secondo un’ottica di federalismo cooperativo tipica della Germania postbellica.

Anche in Austria dopo il referendum per l’adesione all’UE (1994) fu introdotta nel testo costituzionale un’intera sezione dedicata ai rapporti con l’Europa (artt. 23A-23K), poi in altre occasioni aggiornata, che tra l’altro disciplina nel dettaglio il coinvolgimento del Consiglio federale (la camera alta eletta indirettamente dai Parlamenti dei Länder) relativamente non solo ai procedimenti legislativi di ratifica e recepimento, ma soprattutto nella fasce ascendente, cioè nel corso della formazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione.

La tessera del PD: una sfida per cuori impavidi.

Ci si domanda spesso perché mai, nel 2015, aderire ad un partito ed, in particolare, al Partito Democratico. La domanda non è mal posta, perché tocca un punto vero su cui è possibile spendere due brevi paroline.

La tessera è conseguenza di una scelta valoriale che deve aver compiuto il partito, prim’ancora che chi si iscrive o valuta di farlo. Nel senso che il cittadino guarda, di volta in volta, quale partito ha di fronte, per valutare se vuole sostenerlo ed aderirvi. È la qualità del partito, quindi, ciò che conta.

Il PD del Manifesto dei Valori scritto nel 2008, il PD che dopo le primarie del dicembre 2013 ha avviato un suo nuovo corso, è un partito che accetta la diversità e la frammentazione della società, e si candida a rappresentarla e governarla. In questo senso la vocazione maggioritaria non è solo un obiettivo numerico (senza maggioranza non si governa), ma è soprattutto una questione di identità, che fa del PD un partito del presente, un partito della/nella/per la società frammentata, e che sceglie di archiviare una prospettiva passata che gli inglesi chiamano pillarisation. Ovvero la “rappresentanza tradizionale” di cui tanti parlano, quella che Cuperlo difendeva dicendo che dovremmo rivolgerci alla società con il “nostro alfabeto”. E non con il suo, quindi.

Per cui, la tessera? Il PD è un mutante, che sta cambiando nella direzione che cercavo di descrivere, partendo da basi molto diverse. Come in ogni buon cartone animato, non è detto che la trasformazione del mutante vada bene: se va male ne uscirà un mostro, oppure una creatura destinata a scomparire. La tessera del PD oggi è una sfida, forse una scommessa, sicuramente il tentativo di aggiungere una chance da dare a questa trasformazione. Ma tutte le sfide sono rischiose, e non tutti i cuori sono impavidi.

Edo

(Grazie a Stefania Iovine per l’occasione di riflessione)

La forza tranquilla

Con le parole “la forza tranquilla di nonno” un nipote del nostro nuovo Presidente della Repubblica ha commentato su Facebook le sue stesse foto, che ritraevano la serenità con cui Sergio Mattarella ha guardato in salotto insieme ai suoi familiari la propria elezione alla massima carica dello Stato. Ovviamente foto e commento sono stati rapidamente intercettati dagli occhi attenti dei media, e rilanciati.
Non ho idea di quanto consapevolmente quel ragazzo abbia ripreso il famoso slogan di François Mitterand, che a propria volta lo trasse dal leader socialista prebellico Léon Blum. Sicuramente però quelle parole costituiscono un’analisi politica assai azzeccata, che mi piace riprendere. Perché l’elezione di Mattarella segna un trionfo di quella forza tranquilla, sul quale è bene riflettere brevemente.
È infatti un trionfo della forza tranquilla quello che ci ha fatto vedere, nella mattinata di martedì scorso, il passaggio di consegne al Quirinale fra il nuovo Presidente e Pietro Grasso, che lo aveva preceduto come supplente. Un flashback di trentacinque anni, ricordato da entrambi, ci riporta alla mattina dell’Epifania del 1980, quando quelle stesse due persone s’incontrarono per la prima volta sulla scena dell’assassinio mafioso di Piersanti Mattarella: l’uno come giovane magistrato che indagava sulle cosche palermitane, l’altro come fratello che lì decise di dismettere l’ermellino accademico per portare avanti la battaglia di chi era stato ammazzato.
È un orgoglio saperli oggi prima e seconda carica dello Stato! È la dimostrazione che, alla faccia della peggiore delinquenza, la forza tranquilla di chi serve il bene alla fine vince. Tutti dobbiamo essere orgogliosi di questo nostro risultato come popolo italiano, risultato che il resto del mondo non ha tardato a notare ed accogliere.
Il discorso semplice e diretto del Presidente Mattarella dopo il giuramento, tranquillo nei modi ma forte nella portata, spero e credo sia il preludio di un settennato che non ci deluderà.

C’è però un’altra forza tranquilla che è apparsa ed è stata vincitrice: quella del Partito Democratico.
Quanto avvenuto in occasione della elezione presidenziale è esemplificativo delle potenzialità del PD. Se esso rimane unito, è in grado di attrarre tutti gli altri verso di sé, essere protagonista e condurre a risultati molto positivi. Senza la granitica unità del PD che si è vista in quest’occasione, la candidatura di Mattarella sarebbe stata gettata alle ortiche, e con lei il giusto orgoglio degli italiani per questo Presidente. Tale unità è stata dovuta sia un’ottima capacità di guida del Partito e della “partita”, sia ad una lealtà e disponibilità al confronto di tutti gli attori interni al PD. In un commento dei giorni successivi, Matteo Renzi ha fatto un ironico appello affinché questa unità non si ripresenti solo “una volta ogni settantadue anni”: ha ragione, perché è lì il punto nodale da cui passa la ragione stessa di esistere del PD e la sua capacità di riformare il Paese.
Quando queste caratteristiche (capacità di guida, lealtà e disponibilità al confronto fra tutti) ci sono e sono riconosciute, il PD è capace di ottenere per il Paese risultati come quello dell’elezione di Mattarella. Quando esse mancano, il PD non può né potrà riuscire in risultati similmente positivi. Tertium non datur.
Sta a tutti, in questo Partito, capire e dimostrare che è questo il metodo attraverso il quale si può tirare fuori l’Italia dalle secche di una crisi economica ormai lunga, figlia di una crisi sociale lunghissima, precedente ed ormai forse antica. È con lo stesso metodo e lo stesso coraggio con cui si è scelto Mattarella che si possono affrontare di petto i problemi e le sfide che, come ha ben individuato il Presidente, mettono in crisi il patto costitutivo della Repubblica, tradendo quella promessa di uguaglianza e solidarietà inscritta nella Costituzione. La pervasività della corruzione, l’inefficienza degli apparati amministrativi, la mancanza di prospettive per tanti miei coetanei, costretti ad espatriare per poter trovare solo un po’ di normalità, non solo problemi di cui discutere fra sconsolati amici o in un dibattito politico: sono aspetti che, se non invertiti, rischiano di ammazzare il futuro del popolo italiano. Senza affrontare e vincere quelle sfide, la Costituzione rimane lettera morta, testo letterario o al più qualcosa del passato.
Al contrario se avremo forza ed unità, tranquillità e costanza, il patto sociale sotto il quale tutti noi siamo nati potrà continuare ad essere una promessa che si concretizza e non viene tradita.
Siamo ancora in tempo per avere una speranza che non sia vana!

Buon astenuto non mente

La geografia elettorale non ci dice tutto, ma ciò che ci dice è vero. E questo vale per tutte le consultazioni, e quindi anche anche per le elezioni regionali di domenica scorsa. Vi spiego cosa intendo…

Mi sono imbattuto grazie a Facebook in una mappa fatta e pubblicata da qualcuno che probabilmente ha molto tempo ed altrettanta capacità informatica.
Questa mappa misura semplicemente, comune per comune dell’Emilia-Romagna, il tasso di affluenza al voto. In altre parole, ci dice dove e come si distribuita l’astensione.
Un’astensione che è stata tutto meno che omogena: picchi vertiginosi nell’Appennino occidentale (solo il 17% è andato a votare a Bardi), nelle colline riminesi e nel Delta ferrarese del Po; dati decisamente sempre più contenuti all’avvicinarsi di Bologna, con l’aggiunta di un’affluenza comparativamente migliore nel “cratere” del terremoto 2012 (55% a Bondeno) e nella Bassa fra Faenza, Ravenna e la patria di Vasco Errani, Massalombarda (media del 43%).
La morale è semplice: maggiore è la distanza (non solo geografica) dai centri del potere regionale, maggiore è stata l’astensione. Dove ha abitato ed abita il potere regionale, certe relazioni diffuse ed un consolidamento tradizionale, dove cioè l’azione del governo regionale è stata più evidente, l’astensione è stata sì alta, ma visibilmente minore.
Tutto ciò – mi permetto di dire – conferma ancora di più quanto alcuni di noi stanno dicendo in questi giorni. E’ sciocco (e falso) leggere questa triste astensione record come un “messaggio a Renzi cattivo che litiga con la Camusso”, non solo perché essa ha colpito tutti i partiti e non solo il PD (tranne la Lega, ma inclusi SEL ed ex-Tsipras) (e quindi non può essere spiegata con sole ragioni interne al PD), ma anche perché l’astensione è stata più alta proprio laddove la configurazione tradizionale del PD è già da tempo un ricordo. Se di astensione di protesta si tratta (e su questo si può discutere), allora dobbiamo concludere che si tratti di una protesta delle “periferie regionali”, di chi da tempo probabilmente si sentiva non considerato dalla concreta gestione del potere e delle relazioni politiche.

Non spetta a me dire se ciò sia vero. Tuttavia è onesto osservare e riconoscere che non ovunque l’astensione si è manifestata nello stesso modo e con la stessa intensità. Come dire che, carte alla mano… buon astenuto non mente!

Edo

Il fagiano che torna in via Due Madonne

La foto che vedete qua sotto, scattata pochi giorni fa nel grande campo in via Due Madonne, di fronte al Deposito della ex ATC, non è solo una simpatica trovata per reclamizzare la bellezza degli animali. È, e vuole essere, l’immagina di una doppia inversione di tendenza: doppia perché in parte è già in atto, ed in parte è da far accadare grazia alle nostre azioni.

Fagiano via Due MadonneQuel campo, fra via Due Madonne, via Malvezza e la ferrovia Bologna-Ancona, era incolto ed abbandonato da almeno un decennio. Quel campo è un simbolo, parlerermo di lui ma con lui abbracceremo la quelle amplissime distese di terra fertile e non urbanizzata che finora sembravano destinate, più o meno lentamente, ad essere fagocitate dalla “città che avanza”.

Poi viene la crisi economica, la Grande Recessione, e questo destino incontrollabile via via pare rallentare. Qualche settimana fa, intorno a Pasqua, quel campo in via Due Madonne è stato di nuovo arato, dopo oltre un decennio di sterpaglie che crescevano nell’abbandono. A pochi giorni dall’aratura, in un soleggiato pomeriggio d’inizio maggio, due fagiani – e li vedete – troneggiavano fra le zolle, fingendo noncuranza per il fitto traffico di rientro dal lavoro che scorreva come sempre sulla vicina strada.

Il piano urbanistico bolognese, nato nel 2007 (e quindi prima della crisi), individuava quella vasta area che da lì arriva fino al fiume Savena come ambito destinato a nuovi insediamenti. Da urbanizzare. Probabilmente il piano aveva, al suo tempo, sufficienti buoni motivi per prevederlo. Questo non vuol dire però che essi vi siano anche oggi.

Quella terra arata e quei due fagiani che fino a qualche anno fa ci sembravano il passato, ora sono il futuro. Tutta la comunità bolognese, a partire dalla sua classe dirigente economica e politica, è ora chiamata a capire che l’età dei “nuovi insediamenti” è al suo tramonto, perché la crisi ci ha fatto finalmente voltare pagina ed adesso è ora di reinventare il nostro spazio comune. “Rammendare le città e le periferie” dice efficacemente il senatore ed architetto Renzo Piano. Di “volumi zero”, riferendosi alla quantità di nuova edificazione, parla spesso – ed a ragion veduta – il presidente Renzi.

Il Quartiere Savena questo cambio d’epoca e di necessità l’ha capito e lo fa proprio. Proprio fra marzo ed aprile abbiamo, come Consiglio di Quartiere, chiesto ufficialmente al Comune di riconsiderare il confine fra aree urbanizzabili e letto del fiume Savena, che ad oggi è troppo ravvicinato al corso d’acqua. Anche il Comune, con l’impegno di Patrizia Gabellini, architetto stimata e raffinata che della nostra Città fa l’assessore all’urbanistica, con il suo “programma di qualificazione diffusa” sta invertendo in modo importante e significativo la tendenza, andando a ripescare tante piccole aree abbandonate o degradate per dare loro un’opportunità nuova.

Ma il nostro impegno non si fermerà qui: lo faremo per la terra bolognese e per il popolo che da essa ha per secoli tratto il suo cibo, lo faremo anche per i due fagiani di via Due Madonne. A Bologna ed a Savena vogliamo davvero guardare ad un futuro che non è, per fortuna, fatto di palazzoni e palazzinari.

 

“Beppe, esci da questo blog!” 1-0 per Renzi

Un punto, non solo di onore, ma anche di merito politico, è andato oggi a Matteo Renzi. “Beppe, esci da questo blog!” è stata forse l’unica frase compiuta che il Presidente del Consiglio incaricato ha potuto terminare senza essere interrotto e offeso dal capo politico del Movimento 5 Stelle.

E Renzi ha centrato in toto la questione. Beppe Grillo, presentatosi per parlare da solo, per non essere un interlocutore, non per essere consultato (come a maggioranza gli aveva chiesto all’ultimo minuto il “suo popolo” mediante il blog), ma per fare uno show, per fare il suo numero.

Lo spettacolo è stato penoso ed ha rovinato la pausa pranzo a molti di noi. Ma Beppe Grillo, che ho ascoltato attento dal primo all’ultimo minuto, ha fatto una figura meschina, miserabile, da poveretto. Da chi ha voluto adempiere annoiato ad un voto on-line, senza prendere sul serio l’istanza di rinnovamento profondo che tanti italiani hanno chiesto di incarnare a lui ed ai parlamentari eletti nelle sue liste.

La magra figura è proseguita in quella che sarebbe dovuta essere la conferenza stampa della delegazione a 5 Stelle, ed invece si è rivelata una crisi isterica del capo (e con i suoi deputati che gli stavano dietro con la faccia impietrita e molto imbarazzata). Isteria di chi ha probabilmente compreso di aver sbagliato strada, ma non lo vuole ammettere. Isteria di chi ha raccolto i voti su un programma di radicale cambiamento, che però poi non attua, ed anzi si infuria se qualcun’altro cerca di “copiarne” un pezzettino. Ma come, non erano quelli del “voteremo tutto quello che coincide col nostro programma”?

Otto milioni e mezzo di italiani non hanno mandato in Parlamento centosessanta deputati e senatori perché si facesse uno show! E ha fatto quindi benissimo Renzi a chiudere il penoso non-incontro, ma soprattuto a dispiacersi in primo luogo per quegli elettori e per la mortificazione del loro voto. Adesso sta a Renzi dimostrare se – come promette – sarà il nascituro governo a farsi carico di questa sacrosanta istanza di cambiamento che è stata mortificata.

Il quasi premier può avere le carte in regola per fare tutto ciò, ma la partita è appena cominciata. Intanto, 1-0 per Renzi.

Onore al soldato Enrico

Enrico Letta, Presidente del Consiglio ora dimissionario, assume su di sé in queste ore le conseguenze di errori e scelte sue, ma anche di errori e scelte di altri.

Sarebbe errato, credo, osannarlo ora, per compensare con complimenti tardivi (e ipocriti) il modo sguaiato con il quale il premier uscente è stato liquidato. Sarebbe sbagliato anche per coerenza, perché tanti di noi (italiani) non hanno risparmiato al suo governo critiche su critiche, specie in campo fiscale per l’orrida vicenda legata all’abolizione dell’IMU sulla prima casa. E mi ci metto anche io, senza ritrattare una riga di quanto ho pensato allora.

Credo però che, con oggettività e anche a costo di sembrare salomonici, in parte il governo Letta può essere criticato per errori suoi, soprattutto di timidezza ed attendismo. Ad esempio, perché il bel documento “Impegno Italia”, che è un programma d’azione serio e preciso, non è stato presentato prima, all’uscita di Berlusconi dalla maggioranza o subito dopo l’elezione di Renzi alla segreteria del PD? O anche subito prima delle primarie, costringendo candidati ed elettori ad esprimersi con sincerità sul governo? Forse Enrico Letta ha un po’ peccato di deferenza verso il neo-leader fiorentino, che temeva e che, se proprio avesse voluto arginare, avrebbe dovuto affrontare senza chinare il capo.

D’altra parte, però, non tutto il male viene da Enrico. Egli ha dovuto certamente operare in condizioni difficilissime, provate dall’istantaneo viaggio fatto a Berlino dalla Merkel nella stessa giornata in cui aveva raccolto la fiducia dal Parlamento italiano, e soprattuto dalla forzata convivenza di cinque mesi (28 aprile-28 settembre) con Berlusconi, con tutto ciò che essa ha comportato.

In realtà, dopo quello guidato da Mario Monti, il governo Letta è apparso più che altro come il secondo governo Napolitano. Per cui sui questo il premier uscente può stare sereno davvero, dal momento che non è suo lo schema di gioco che la Direzione del PD ha voluto terminare.

Se mi posso permettere un giudizio, penso che quella che il nuovo corso del PD sta cercando di archiviare non è tanto la leadership di Enrico Letta (mai nata), quanto quella di Napolitano, che è stato il vero capo dal centrosinistra fin dai primi scricchiolii del governo Prodi (2006-7) e la vera guida del Paese dall’ottobre 2011 ad oggi. Quello che il Partito Democratico, due giorni fa, ha cercato di fare è il passo che chiuda l’esperienza dei governi ispirati direttamente dal Quirinale, avviando una nuova stagione dove sia la forza stessa del Partito, fondata nelle primarie, ad ispirare ed orientare il governo del Paese.

È una bella sfida, e io tifo perché sia la forza collettiva di un grande Partito a prevalere, nonostante tutti gli errori anche gravi che possono essere stati fatti.

In questo senso, una domanda è lecita: sarà il primo governo Renzi o il terzo governo Napolitano?

La Bazzanese è renziana, la Persicetana è cuperliana.

Ora che il risultato è ufficialmente consacrato, sappiamo che quella della spaccatura fra “gli iscritti” e “gli elettori” del PD era una bufala. Agitata ad arte, per pestare nel torbido, ma comunque una bufala. Anche la votazione fra gli iscritti del PD ha fatto emergere un risultato partecipato (296.000 i votanti, il 55%) e chiaro: i candidati che esplicitano la necessità di un cambiamento radicale prevalgono su quello, Gianni Cuperlo, che sul punto appare più riluttante. Gli iscritti al PD non sono quindi né marziani né nostalgici dei bei tempi antichi, ma, come tutto il resto del Paese, sentono chiara la necessità di un visibile svolta politica e (soprattutto!) morale.

La saggezza dei militanti ha sconfitto le cornacchie del malaugurio. Chi voleva spaccare il PD, mettere gli uni contro gli altri – usando una retorica imbarazzante – si è ritrovato, grazie alla saggezza dei nostri iscritti, in un angolo. E questo qualuno non è certo Gianni Cuperlo, della cui correttezza non si può dubitare, ma diversi che – partendo dal “Palazzo” ed arrivando alla Bassa bolognese – hanno cercato di anteporre il proprio comodo a tutto il resto.

La prevalenza netta di Matteo Renzi fra gli iscritti al PD è una buona notizia! Dimostra che l’energia e la passione messe nella causa del rinnovamento del PD e dell’Italia hanno convinto tutti, e non solo quelli meno “addomesticati” alla politica. Anche a Bologna, dove pure il risultato non è stato strabiliante, il bicchiere è autenticamente mezzo pieno, grazie allo sforzo di tanti, vecchi e nuovi.

Nei comuni più in blu gli iscritti PD hanno scelto perlopiù Renzi, in quelli più in rosso Cuperlo.

Nei comuni più in blu gli iscritti PD hanno scelto perlopiù Renzi, in quelli più in rosso Cuperlo.

Il risultato bolognese, ben percettibile dalla bella mappa fatta da Francesco Pierantoni e visibile a questo link, è figlio di tanti fattori, che vanno dall’attività e propositività dei comitati locali ad altri fattori, spesso messi in secondo piano anche se determinanti, come quelli demografici ed urbanistici. Qualcuno potrà storgere il naso, ma che il colore politico dei costruttori dei grandi condomìni di periferia (coop rosse in alcune vie, bianche in alcune altre, aziende di nessun colore in altre ancora) influenza ancora tanto i risultati.

Agevolmente si osserva come la Città sia stata più con Cuperlo rispetto al “Contado”, dove le due mozioni sostanzialmente “se la sono giocata”. Attribuire questo solo alla demografia sarebbe un grave errore: sia perché la differenza di età media (pur essendoci) non è così clamorosa fra Città e Provincia, sia perché è empiricamente osservabile che il voto degli iscritti non ha seguito solo una presunta falla inter-generazionale, ma è stato, in larga parte, trasversale. Né è vero che intra muros si sia lavorato mediamente con meno entusiasmo che fuori, perché allora non si spiegerebbero certi risultati smaccatamente pro Cuperlo fuori porta Lame e fuori porta San Felice. Quello che a Bologna-città rimane è una serie di dinamiche (anzitutto sociali e poi politiche, urbanistiche e, anche, demografiche) che solo un’analisi molto più approfondita saprebbe spiegare.

Quello che salta all’occhio, simpaticamente, è che la Bazzanese è renziana, e la Persicetana è cuperliana. Nel senso, piuttosto evidente dalla carta, che tutti i paesi lungo la prima strada hanno premiato Matteo Renzi, tutti quelli lungo la seconda Gianni Cuperlo.

Dopo l’8 dicembre, giorno delle belle primarie aperte a tutti gli elettori democratici, dovremo tornare a guardare le due strade non con gli occhi della Città, ma con quelli della campagna: non due strade divergenti, ma due strade convergenti!

Avanti insieme, per cambiare verso all’Italia!
Edo

Serve un Partito serio. Per questo votiamo Renzi!

Da qualsiasi lato la si voglia guardare, la crisi della politica è sconfinata. Il dato più attendibile di tutti, quello che non può risentire di sofisticherie statistiche o di dispute sull’attendibilità, è l’esperienza personale che ognuno di noi fa di un sentimento diffuso ed onnicomprensivo di distacco, accusa, sdegno.

Quello che ogni parte, comprese le stesse file delle formazioni politiche, si muove è un rimprovero anzitutto morale. Si chiede che i rappresentanti: siano d’esempio, siano competenti e pragmatici, sappiano ascoltare i concittadini rappresentati. E’ piuttosto evidente che queste doti, di cui si rimprovera la perdurante mancanza, siano caratteristiche morali ed umane, prim’ancora che specificatamente politiche. E se quello che manca sono le doti morali degli uomini e donne che fanno politica, è chiaro che il problema più grosso è la selezione degli stessi. Se la crisi della rappresentanza c’è, è perché nel tempo è mancato un efficace processo di selezione e scelta dei rappresentanti politici. E quindi, per risolverla, serve intervenire su questi processi interni alle formazioni politiche: servono, in sostanza, dei partiti che facciano seriamente il loro lavoro!

Se, come centrosinistra, vogliamo dare al Paese una nuova speranza, svoltare rispetto alla decadenza economica, sociale e politica in cui versa, serve anzitutto un PD serio che esprima una classe dirigente all’altezza. Non serve meno politica, né un partito “liquido” o “gassoso”, né piattaforme telematiche che illudono tutti senza risolvere un bel niente. Serve un Partito che si carichi seriamente del proprio compito, invertendo in questo radicalmente il verso con il costume corrente. Serve cambiare verso, dalla palude verso la serietà.

Può Matteo Renzi fare questo? Io credo di sì!

In primo luogo, perché è l’unico che – da tempo – individua con franchezza nella qualità scadente della generazione attualmente dirigente il vero problema da risolvere. Prima la si è chiamata “rottamazione”, poi si sono cercati altri termini che apparissero meno crudi. Il problema però lo ha individuato da tempo, in modo più sincero di altri che – pur ammettendolo – fanno seguire a questo riconoscimento una serie di postille e specificazioni che fanno venire il mal di testa.

In secondo luogo, e soprattutto, perché indica la via giusta per risolverlo. La strada è una radicale inversione di marcia del PD, che assuma il processo locale di selezione degli amministratori pubblici come proprio centro, anziché le dinamiche interne alle grandi istituzioni nazionali, Parlamento e Governo. Finché ci si porrà prima il problema di quanti emendamenti fare alla tal proposta di legge, e poi quello di studiare e comporre le soluzioni ai problemi delle mille anime d’Italia, saremo strutturalmente sfasati. Quella di Matteo Renzi è l’occasione di rimettere l’accento sulla dimensione giusta: un Partito che coltivi, selezioni ed eventualmente promuova dalla periferia verso il centro, anziché uno che faccia scarichi nei territori dinamiche e fratture tutte romane.

In terzo luogo, Matteo Renzi ha l’opportunità – e fin qui ne ha dimostrato anche la consapevolezza – di formare una consapevolezza del Partito su se stesso che sia realmente adeguata alle necessità. Quando, l’anno scorso, abbiamo chiesto agli elettori le giustificazioni per l’assenza dal primo turno delle primarie, è stato l’apice di un PD che talvolta assomiglia più ad un’amministrazione ministeriale che ad un movimento politico. Fabrizio Barca, in questi mesi, ha arricchito il dibattito di una seria e profonda riflessione sulla missione di un partito nel XXI secolo. Ancor più, però, possiamo tenere a mente il testo dell’art. 49 della Costituzione:

Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.
 

Quello cui servono i partiti è concorrere. La ‘narrazione’, il ‘nostro linguaggio’, e così via, sono tutte cose serie, da non smarrire, ma da riferire allo scopo fondamentale: concorrere per determinare la politica nazionale. Diversamente, se ci accontentassimo di raccontarci, di rivolgerci solo a chi la pensa come noi, saremmo un’associazione culturale, una fondazione di riflessione politica. La cultura è fondamentale, senza di essa di smarriremmo presto, ma dobbiamo avere ben chiaro che serve per gareggiare. E per vincere!

Edo

Chi ha voluto il governo Letta? Noi!

È inutile che ci prendiamo in giro. Il governo Letta non è una forzatura, un colpo improvviso, è il naturale sviluppo degli ultimi (almeno) sei mesi di gestione politica del centrosinistra. Con buona pace dei miei amici retroscenisti o complottisti – per i quali c’è sempre un oscuro piano di D’Alema, della BCE o dello IOR dietro ad ogni starnuto – il governo «d’intesa politica» PD-PdL è la conseguenza di sei mesi di disastro del gruppo dirigente vicino a Bersani. Più alcune varianti: prima fra tutte, Sua Maestà il Presidente.

Fase 1: la difesa dell’ortodossia. Il primo anello della catena risale ad ottobre 2012. Proprio nei giorni in cui il PD compiva cinque anni, trascorsi (nel bene o nel male) dalle sue primarie “fondative”, dove la parte del leone la fece non tanto il vincitore di allora (Veltroni), quanto l’enorme popolo accorso a partecipare, decidere, impegnarsi, unito a prescindere dal candidato votato. A cinque anni di distanza, il panorama non poteva essere più diverso, sia per la sostanza politica della competizione, sia per lo spirito con cui vi si partecipava.

Un’immagine rende plasticamente l’idea dello spirito che ha aleggiato sulle primarie 2012: i poveri volontari del PD impegnati, circolo per circolo in tutt’Italia, in un estenuante e burocratico lavoro di pre-registrazione degli intenzionati a votare. Utilità? Nessuna. E se ne sono accorti subito tutti che l’operazione – esaltante come lavorare alla polizia mortuaria – non serviva assolutamente a nulla. Se non a diffondere sotto traccia l’idea che il Partito non è per tutti, ma «per chi ci crede»: cioè, detto in altre parole, che gli elettori non sono uguali perché chi non è un elettore fedele, mobilitato, impegnato (e possibilmente anziano) vale un po’ meno e, se vuole, quella domenica può anche farsi un giro al mare.

Quella scena dei poveri volontari estenuati da un lavoro inutile ci dà l’idea di quale fosse l’intento di fondo emerso dalle primarie 2012: difendere l’ortodossia. E così fra ottobre e novembre scorsi siamo stati costretti ad assistere ad una campagna per le primarie da incubo: un Partito-Sant’Uffizio da una parte, il cui intento esplicito era conservare la propria purezza, contro un gruppo di eretici perfettamente a loro agio nella parte. «Fascistoidi!» contro «Scagnozzi!». Nessuna delle due parti ha fatto molto per evitare questo clima da crociata interna, poiché era congeniale agli uni vestire i panni degli inquisitori, e agli altri quelli delle vittime.

Il risultato – frutto della pura logica, neanche della politica – è stato duplice, e si è ritorto (ovviamente) contro a chi l’aveva ordito. Il primo risultato è stato che, vinte le primarie, non c’era più motivo di fare campagna elettorale: tanto l’obiettivo (conservare l’ortodossia) era già stato raggiunto. Qualcuno ha detto – e ha fatto bene – che se si fosse speso per la campagna elettorale “vera” un decimo delle energie spese per quella delle primarie, le cose per il PD sarebbero andate diversamente. Ciò è verissimo! Ma il motivo non è stato l’insipienza, l’inettitudine o qualche “intelligenza con il nemico”: il reale obiettivo era già stato raggiunto, per cui si credeva che da lì in avanti tutto sarebbe proceduto gloriosamente verso il sol dell’avvenir. Anche se c’erano ottimi motivi per votare Bersani, senza campagna elettorale il PD che doveva trionfare, ha invece perso.

La seconda conseguenza è forse peggiore della prima. In un partito profondamente malato di «feudalizzazione» (così Bersani stesso), chi ha orchestrato i toni delle primarie-crociata ha finito per avvitare le tifoserie su loro stesse, “caricando a molla” i militanti in buona fede (di ambo i lati) su posizioni più intransigenti dell’intransigenza. E adesso è troppo facile lamentarsi di un «Partito diviso» e delle «correnti», quando fino a ieri divisioni e appartenenze particolari sono state usate come funzionali all’obiettivo!

Fase 2: perdere elezioni e dopo-elezioni. Perse le elezioni (poiché altre parole giuste non ce ne sono), siamo riusciti a perdere anche il dopo. Per carità, era difficilissimo e nessuno di noi avrebbe voluto essere al posto del povero Bersani. Però il risultato è stato quello, ed il motivo è che il PD è stato tronfio, vanaglorioso. Si è perso perché ci si è comportati da vincitori. Nonostante la débâcle elettorale, nessuno si è scomposto. Anzi, ci si è presentati da Napolitano reclamando come fosse dovuto un incarico di governo che – prevedibilmente – è naufragato in mezza giornata.

Oltre il danno la beffa, cioè la straordinaria strategia di Grillo per umiliare il PD (e fidelizzarsi così la consistente fetta di suo elettorato da lì proveniente). Un Grillo che ha costretto il PD a mendicare il suo assenso, fino alla desolante ed umiliante consultazione «in diretta streaming» fra Bersani, Crimi e Lombardi. Un Grillo che ha opposto un muro di “no!” schiaffeggiati sulla faccia dei suoi stessi parlamentari e di Bersani, salvo poi fare il finto pentito con la candidatura Rodotà. Il cui unico scopo – perfettamente raggiunto e assolutamente coerente – era quello di spaccare il PD. Perché delle due l’una: o Grillo è scemo, e ha passato gli ultimi anni e mesi (e in particolare le ultime settimane) ad avversare ed ostacolare il PD salvo poi ricredersi in modo folgorante ed offrire il ramoscello d’ulivo Rodotà, oppure Grillo è intelligente e quest’ultima candidatura era coerente con le intenzioni precedenti. Come ho già avuto modo di dire, secondo me Grillo non è scemo. E quindi…

Fase 3: Sua Maestà il Presidente. Franato il PD sotto i suoi stessi colpi, ecco dietro l’angolo Berlusconi pronto a fare la parte del vincitore…per abdicazione del vincitore precedente. E quindi così nasce la rielezione di Giorgio Napolitano, che – dopo un primo mandato già molto forte, amato e significativo – era l’unico nome in grado di fermare l’auto-dissanguamento democratico e di sbloccare una situazione già da troppo incancrenita.

La rielezione è stata – già nelle sue immagini – altamente significativa. Un Presidente eletto perché insostituibile che, senza picchetti né cerimonie, discende dal colle del Quirinale, va, bastona il Parlamento intero e risale al suo Palazzo. Tutti gli altri annichiliti. Giorgio ora è re e comanda lui. Perché ha un’arma potentissima, ben più potente della minaccia di scioglimento delle Camere. Quelle delle proprie dimissioni. Sì, perché se si dimette lui… questi qua chi eleggono?

Napolitano, con la sua rielezione e la nomina del governo Letta, ha risollevato una politica fradicia appoggiandola su uno scoglio asciutto e stabile. Ma può farla ripiombare fra le onde e i cavalloni sfilandosi lui, quando lo volesse, e riprecipitando tutta la potestà di decidere in un Parlamento dominato da forze dimostratesi incapaci di farlo. Che si esporrebbero così (di nuovo) al pubblico ludibrio.

In tutto ciò, il bravo Enrico Letta – per il quale fin da tempi non sospetti c’era da augurarsi un suo ingresso a Palazzo Chigi – è riuscito bene nell’unica impresa che poteva compiere: rendere meno peggiore possibile un boccone indigeribile per noi elettori del PD. Lo ha fatto con un governo fatto – per la nostra parte – di nomi ottimi e finalmente diversi dalla fin troppo lunga schiera che ci ha condotti a questa desolazione. Per l’altra parte, almeno, sono fuori dal Governo i nomi più amari e più odiati. Nel complesso, ci tocca di dire che “piuttosto che niente…”.

Adesso, però, si prefigura un altro passo. Perché il PD e il centrosinistra hanno sofferto troppo per rimanere intonsi. Si sono troppo esercitati sul pensiero unico di conservare la “purezza di sinistra” per non caderne vittime. Qualcuno uscirà, sbattendo la porta ed andando incontro ad un Vendola ghiotto che già imbandisce la tavola. Peccato, perché ci credevamo.

Edo