Solo una cosa su l’Unità

Domani esce l’ultimo numero de l’Unità. Questa è solo una pessima notizia, sotto tutti gli aspetti (libertà di informazione, questione occupazionale, perdita di ricchezza culturale), checché qualcuno ne dica.
Quello che però mi riesce difficile tacere è che le somme (ingentissime) di finanziamento pubblico, garantite dalla riapertura (2001) ad oggi, evidentemente sono state investite malissimo, se i lettori sono passati da 73.000 (nel 2001 appunto) a 20.000 (oggi). Stride ancor di più il confronto fra i lettori attuali ed i quasi 55.000 del 2009: in cinque anni una restrizione di quasi due terzi!
Possibile che circa 6,5 milioni di euro ogni anno (dal 2001 al 2009), poi diventati circa 3,5 l’anno, non siano stati usati in modo tale da creare un giornale che fosse apprezzato dai suoi stessi lettori?!
L’Unità quindi non è stata uccisa ieri, o ierilaltro, ma in quindici anni quasi ininterrotti di cattiva gestione editoriale. Sarebbe stato bello se, invece, sia la Sinistra sia il “suo” giornale avessero saputo creare un prodotto editoriale e culturale efficace, capace di rispecchiare un certo modo diffuso di vedere il Paese in questo momento storico.
Non è quindi tanto di un “piano di salvataggio” in extremis (il quale comunque sarebbe stato il benvenuto!) che sentiremo la mancanza, quanto piuttosto di questa mancata occasione, in termini di cultura e di valore.

Basta papi santi

La notizia che quest’autunno sarà beatificato anche papa Paolo VI, forse un po’ passata in secondo piano ma che sicuramente sarà rilanciata con enfasi all’approssimarsi della cerimonia, credo debba indurre ad una riflessione onesta sull’infornata di canonizzazioni papali di questo 2014.

Non mi pare possa sfuggire il pericolo di un eccesso di incenso verso l’istituzione-papato. Non è infatti un caso se, nel tempo, i pontefici “elevati alla gloria degli altari” siano sempre stati pochi e se, di questi, la maggioranza sia stata riconosciuta trascorsi diversi anni dalla morte. Cioè la linea è (quasi) sempre stata quella della prudenza, per rifuggire dal pericolo di un papa che – canonizzando un suo precedessore – santifichi un poco anche quel ruolo e quindi anche se stesso.

Non pare che l’attuale pontefice la pensi così, se è vero che già due papi (assai recenti entrambi) sono stati elevati a santi questa primavera e che di un altro – Paolo VI appunto – è imminente la beatificazione. Non ho nulla contro Paolo VI, anzi! È la prudenza però ciò che pare mancante in tutto questo: santificando persone che hanno ricoperto la stessa carica poco prima, ed al cui operato si fa esplicito richiamo, il terreno diventa scivoloso verso il baratro dell’auto-compiacimento.

Se contiamo che, poi, anche di Pio XII e del mio conterraneo dolomitico Giovanni Paolo I sono da tempo avviate le cause di beatificazione, potremmo arrivare all’eclatante di risultato che dal 1939 al 2005 il “trono di Pietro” sarabbe santo senza alcuna soluzione di continuità. Sarebbe la prova di un lungo periodo di particolare grazia della Chiesa cattolica, o piuttosto una troppo spettacolare celebrazione di se stessi?

Non è forse un’ostentazione eccessiva più questa sequenza di sostanziali auto-canonizzazioni dell’istitutuzione-papato, che non l’uso tutto formale di un qualche dorato paramento ottocentesco?

Né può reggere il richiamo alla (oggettiva ed indubbia) grandezza ed importanza del Concilio Vaticano II. Infatti, se guardiamo ai concili precedenti (altrettanto grandi ed importanti per le loro epoche), di nessuno troviamo canonizzati o beatificati tutti i pontefici coinvolti, prima durante e dopo il concilio stesso. Attorno al Concilio di Trento (che segnò di sé per secoli la vita della Chiesa) si nota sì un fiorire di santi, ma in ambiti ecclesiali vari e diversi (vescovi, fondatori di ordini religiosi, monache, teologi…), che complessivamente dimostrano una “stagione di grazia” vissuta a quell’epoca dalla Chiesa. Di tutti questi santi, uno solo – Pio V – fu papa.

Quello che mi sembra manchi è un riferimento a forme di santità cui possano guardare come esempio tutti i cristiani, e non solo la ristretta cerchia che (legittimamente) ha possibilità di diventare vescovo di Roma.

A differenza di qualche anno fa, mancano le madri ed i padri di famiglia canonizzati, così come mancano i vescovi, i professionisti, i politici cristiani. Mancano insomma le diverse sfumature del vivere la fede in tutte le dimensioni dell’umanità, mentre è prominente la celebrazione dei soli successori di Pietro, capi del cattolicesimo. Le cause di beatificazione, ad esempio, degli statisti cattolici fondatori dell’Europa unita (il franco-tedesco Robert Schuman e l’italiano Alcide De Gasperi) sono aperte da decenni e rimangono senza esito.

Probabilmente, mi permetto di dire, ci sarebbe bisogno non di meno santi, ma di canonizzazioni e beatificazioni cui tutti i cristiani e tutti gli uomini di buona volontà possano guardare come esempio per le loro vite, da laici impegnati nel rendere il mondo un po’ più simile al Regno celeste.

Non tanto “basta santi!” quindi, ma “basta papi santi!”. Paolo VI va bene, ma dopo – vi prego – diversifichiamo un po’!

Edo

Tutto in un MMS: Mobilità modello Savena

Sui vari temi che la parola “mobilità” suscita, dopo due anni e mezzo, cioè alla metà del mandato che ci stato dato, come Consiglio di Quartiere abbiamo scelto di fare il punto e di chiedere un rilancio.

Sono stati due anni e mezzo intensi, che hanno visto il Consiglio di Quartiere votare – quasi sempre all’unanimità – numerose prese di posizione, dai cantieri legati all’Altà velocità ferroviaria a quelli del defunto Civis, fino alla proposta di azioni specifiche per la sicurezza pedonale e ciclabile. Ancor di più, se si può dire, questi due anni e mezzo sono stati caratterizzati dalla consultazione territoriale attraverso la quale abbiamo scelto (con la Presidente Virginia Gieri ed il collega Simone Montanari) di andare rione per rione e lì, in loco, parlare di cosa va e cosa non va, cercare soluzioni e proposte prima che esplodano i problemi. L’ultima consultazione l’abbiamo fatta circa un mese fa a Monte Donato, con un’assemblea affollatissima (a occhio c’era quasi un rappresentante per famiglia, o poco meno), conclusasi con la voglia da parte di chi lì abita di costituire un’associazione per mettere “a sistema” idee, proposte e anche – non neghiamocelo! – lamentele.

Qualche giorno fa il Consiglio di Quartiere, come dicevo, ha tirato una prima somma a metà del percorso, e l’ha voluto fare cercando di chiedere un rilancio a tutto campo, per affrontare problemi e sfide della mobilità non con un approccio lamentoso per micro-problemi sotto casa, ma con un’idea precisa nata nella pragmaticità di chi prima vive le cose e poi ne parla, con alcune priorità ed altre azioni da coordinare.

Con l’orgoglio di chi vive in questo bellissimo angolo di Bologna e vuole che domani sia ancora meglio di oggi. E allora, senza neanche un voto contrario come è nello stile del nostro Consiglio di Quartiere, sempre impropontato alla collaboratività, abbiamo approvato tutto questo.

Con alcuni concetti-chiave: rilancio dell’escursionismo e dei percorsi pedonali di vicinato; nuova pista ciclabile San Ruffillo-Mazzini; SFM come cuore e perno del trasporto pubblico, scommettendo più su quello che su lenti ed affollati autobus; conclusione rapida dei lavori per il nodo di Rastignano; riforma “con il cesello” di sosta e sensi unici, senza che sia necessario introdurre strisce a pagamento.

PIANO PER LA MOBILITÀ A SAVENA
proposto all’attenzione del Consiglio comunale e dell’Assessore Andrea Colombo

(il testo che qui riporto è quello dell’odg 10/2014 votato il 13 marzo scorso)

1) Mobilità pedonale

1.1) Approccio politico: anche in una porzione di Bologna non afferente alla Città storica e quindi privo di pedonalizzazione in senso tradizionale, la mobilità pedonale deve assumere un ruolo non secondario sia nella dimensione di vicinato, sia nell’obiettivo di cucire fra loro parti urbanisticamente distinte, sia in quello di favorire una cultura dell’andare a piedi ed un rilancio dell’escursionismo verso la Collina.
1.2) Azione principale: realizzazione di due “capolinea dell’escursionismo” a Savena, corrispondenti a Villa Mazzacorati ed alla cd. racchetta di via Corelli. Da essi, quando andranno finalmente in porto i progetti rispettivamente del Parco dei Camaldoli e della risistemazione ambientale post-cantiere TAV, si dovranno dipartire i percorsi verso i Colli bolognesi da un parte, e verso il Parco dei Gessi dall’altra. Il solo modo perché ciò abbia un senso complessivo nel tessuto urbano di Savena e di Bologna è la realizzazione anche di un camminamento di tipo sentieristico in riva al Canale di Savena (e ricalcandone il percorso ove esso è stato coperto), di modo che i due «capolinea escursionistici» siano collegati fra loro e con il resto della Città.
1.3) Altre azioni: realizzazione, con la collaborazione fondamentale delle realtà associative e commerciali locali, di nuovi spazi urbani “di vicinato”, dove il cittadino possa con serenità fruire di un rione e dei suoi servizi: in questo senso, assume particolare importanza l’idea di risistemazione dell’area della cd. Piazzetta di San Ruffillo, che costituisce un obiettivo primario dell’Amministrazione di Quartiere, e quella dell’istituzione delle “zone 30”, nel rispetto dei criteri di cui si dirà oltre.
Messa in sicurezza del camminamento in riva al Savena che dalla Chiusa di San Ruffillo porta al Paleotto, attualmente in stato di pericolo idro-geologico.
Realizzazione di un collegamento pedonale collinare fra l’abitato di Monte Donato ed il centro di San Ruffillo, in un contesto di sicurezza, anche con riferimento all’espansione presente e futura dell’Istituto comprensivo n. 13 in via Buon Pastore.

2) Mobilità ciclabile

2.1) Approccio politico: anche questa componetene va promossa, tutelata ed incentivata,  nella convinzione che possa diventare un’alternativa valida e credibile al trasporto privato motorizzato. Tale scopo può essere concretizzato solo attraverso il miglioramento della rete dei percorsi ciclabili sicuri, preferibilmente in sede separata ed efficienti, cioè che consentano di raggiungere le principali centralità nell’area urbana.
2.2) Azione principale: realizzazione del collegamento ciclabile fra le due stazioni FS di San Ruffillo e di Mazzini, con un percorso che dal piazzale Anceschi si affianchi alle vie Mercadante e Guanella, attraversi via della Foscherara, raggiunga via delle Armi (dove intersecarsi con un percorso ciclabile già esistente da tempo e finora “isolato”), passi all’interno dell’area verde e sportiva di via Torino, si incroci con via Parisio e, utilizzandone la breve racchetta abbandonata, arrivi all’attraversamento ciclabile protetto di via degli Orti, dove termina attualmente la pista che collega poi alla Stazione Mazzini e alla radiale ciclabile Bologna – San Lazzaro.
2.3) Altre azioni: prosecuzione del lavoro di “cucitura” fra la grande radiale ciclabile Bologna – San Lazzaro ed i rioni che essa attraversa, completandone i collegamenti capaci di raggiungere meglio le parti più attive della Città e le congiunzioni con le parti del Quartiere attualmente non interessate o solo lambite.

3) Trasporto pubblico locale

3.1) Approccio politico: è il Sistema Ferroviario Metropolitano la vera scommessa della mobilità bolognese, in tutte le sue componenti. L’SFM deve essere la perno della trasformazione sia della mobilità pedonale, sia dei collegamenti ciclabili, sia in chiave di alternativa al trasporto privato, sia in chiave di riprogettazione complessiva del TPL.
3.2) Azione principale: nel contesto della medesima somma economica complessiva impiegata, deve essere ridisegnata in modo sempre migliore la relazione di scambio l’SFM e la rete degli autobus, di modo che la seconda abbia un ruolo ancillare rispetto al primo, avendo cioè il TPL a Savena le due Stazioni Mazzini e San Ruffillo come propri poli. Da un parte, occorre migliorare ed infittire orari e cadenze dell’SFM, perché assorba parte del flusso di viaggiatori che oggi usano il TPL su gomma per trasferimenti da una parte all’altra della Città e dell’area metropolitana, e perché assorba parte del traffico privato in entrata a Bologna dalla Valle del Savena (direttrice della Futa) e dal Levante bolognese (direttrice della via Emilia). Dall’altra, è fortemente necessario migliore i collegamenti interni fra l’ex Quartiere Mazzini e l’ex Quartiere San Ruffillo, che tuttora nella topografia delle linee di autobus sembrano entità separate ed attratte unicamente dalla relazione radiale con il Centro storico.
3.3) Altre azioni: realizzare, mediante le azioni già contemplate nelle altri campi di questo deliberazione, l’interconnessione dell’SFM con la rete della mobilità ciclabile e con la riprogettazione della mobilità nelle “zone 30”.

4) Trasporto privato motorizzato

4.1) Approccio politico: la cura delle componenti del sistema di mobilità precedentemente elencate è l’unico modo per cercare di arrivare ad una reale concorrenza fra i diversi mezzi di trasporto, che permetta ai cittadini di avere alternative efficienti ed economiche al mezzo privato. Allo stato, le esigenze di sosta nel nostro territorio sono abbastanza equilibrate, tali da non ritenere necessaria l’introduzione anche a Savena della sosta a pagamento.
4.2) Azione principale: realizzazione di una doppia dimensione del trasporto privato a Savena: da un lato deve essere assolutamente intrapreso uno sforzo decisivo per portare a termine i lavori per la Bretella del Dazio, il primo tratto della variante di Rastignano e la ricucitura ambientale successiva al ventennio di cantieri TAV; dall’altro lato, valorizzare il carattere vicinale di alcune aree mediante l’istituzione di “zone 30”, laddove sia possibile mantenere invariato il saldo dei posti auto e collegarsi con immediatezza all’SFM.
Il completamento dei lavori del nodo di Rastignano potrà mettere fine ai due decenni di disagi per i concittadini residenti nell’area di via Corelli, e potrà finalmente consentire di liberare dal traffico pesante anche di transito zone a vocazione residenziale e commerciale. Inoltre, potrà consentire di realizzare uno dei due “capolinea escursionistici” di cui si è sopra.
Per quanto riguarda le “zone 30”, esse possono essere individuate laddove vi sia una ragionevole dimensione di vicinato da tutelare mediante interventi complessivi di riqualificazione delle strade e dell’arredo urbano, unitamente alla garanzia dell’invarianza del saldo di posti auto e dell’efficace collegamento con le stazioni dell’SFM. Hanno queste caratteristiche: la zona Pontevecchio (compresa fra la ferrovia, via Emilia Levante, via Po e via degli Orti), la zona Bellaria (compresa fra le vie Po, Emilia Levante, Arno e degli Ortolani) e la zona bassa di San Ruffillo (compresa fra la ferrovia, via della Direttissima, via Toscana e via Mascagni).
4.3) Altre azioni: realizzazione ad opera di privati, anche allo scopo di raggiungere gli obiettivi sottesi all’istituzione di “zone 30”, di un nuovo parcheggio pertinenziale sotterraneo in piazza Belluno e di un altro nella zona bassa di San Ruffillo.
Riapertura del tratto interrotto di via Milano, fra via Mazzoni e via Francesco Cavazzoni, con messa in sicurezza di quest’ultima.

Forse Putin non ha tutti i torti. E l’Europa disunita invece sì.

Lucia Goracci in diretta dalla Crimea per Rainews24

Lucia Goracci in diretta dalla Crimea per Rainews24

Quando Lucia Goracci, bravissima giornalista da poco inviata dalla Rai in Crimea, si è collegata in diretta con i suoi colleghi a Roma, nei loro volti si leggeva un po’ di smarrimento. Perché alla domanda “Ma come stanno reagendo gli abitanti della Crimea?” la Goracci ha risposto sostanzialmente “Sono tranquilli e non vedono l’ora che arrivino i russi come liberatori”. Questo forse dovrebbe e potrebbe insegnarci che la realtà in quel grande paese che è l’Ucraina è un po’ più complicata rispetto alla banale favoletta piazza buona vs. Putin cattivo che tanti, più o meno ingenuamente, cercano di farci credere.

Qualche testa particolarmente serie – in primis “Limes” – ci racconta l’antefatto di quello che sta accadendo in questi giorni partendo da diversi anni fa. E fa bene, ma io, non essendone capace, vi rimando all’autorevolezza di quella rivista. Soprattutto per quanto riguarda le idee del presidente russo sull’Ucraina, espresse già nel 2008.

Qui invece vorrei partire da qualche considerazione più alla portata. La prima, è oggettiva, geografica: l’Ucraina è un paese storicamente ed etnicamente composito. Da una parte il suo Ovest, che fu prima polacco e lituano, poi asburgico, poi nuovamente polacco e che vide i russi solo nel 1945. Dall’altra, all’opposto, regioni abitate principalmente da russi, dove questa è la lingua ed il legame con Mosca è sempre, senza interruzioni, l’unico riferimento economico sociale e culturale. In mezzo, attorno a Kiev, una metropoli ed una regione oggettivamente miste, dove è sì forte il legame storico ed economico con la Russia, ma la popolazione è in maggioranza d’etnia ucraina. Ai lati, giù in fondo, c’è la Crimea, abitata da russi, sede della marina militare russa, “regalata” a Kiev da un capriccio di Krusciov, quando questo passaggio era sempre dentro all’URSS e quindi poco più che cerimoniale.

Su questa situazione di tipo balcanico, la Russia (a torto o a ragione) ha da tempo fatto sapere come la pensa. Senza contare che il confine ucraino, in alcuni punti, arriva a meno di 500 km in linea d’aria dalla Piazza Rossa. Che, per un Paese così enorme come la Russia, è come dire che gli è in braccio. Per cui la posizione russa in tutti questi anni è stata: l’Ucraina faccia i suoi commerci con chi vuole, ma rimanendo amica in modo privilegiato di Mosca. Un approccio possessivo, se vogliamo, ma chiaro da almeno un decennio.

A guastare le feste ci ha pensato l’allegra Europa a guida lituana. Il 28-29 novembre scorso a Vilnius, forse memori dei lunghi secoli di dominazione polacco-lituana su queste terre, l’UE propone l’ormai famoso “accordo di associazione” non solo all’Ucraina, ma anche a Moldavia, Georgia ed Armenia – tutti vicini della Russia – nell’ambito di un altisonante “terzo summit sulla partnership orientale”. Ed è bene ricordare quale sia stata la strada fatta dai Paesi che prima di questi erano stati inseriti nella “partnership orientale”: prima associazione economica con l’UE, poi ingresso a pieno titolo nella stessa e nella NATO. Ovvero un’alleanza economica (l’UE) che sottrae spazio commerciale alla Russia; ed un’alleanza militare (la NATO) che vede ancora nella Russia un nemico.

È mancata quindi, ancora una volta, un’affermazione seria di unità europea. Lasciando che, sulla spinta di alcuni paesi (Polonia e Stati baltici) che per legittime ragioni storiche individuano esplicitamente in Mosca un nemico, l’Europa sta da decenni faticando ad individuare quali siano gli interessi suoi, ma intanto lavora lei per quelli di Washington. Perché tutto si potrà pensare dei metodi antidemocratici di Vladimir Putin, ma è difficile pensare che la Russia possa tacere di fronte alla concreta prospettiva che Paese come l’Ucraina – con metà del territorio che parla russo ed a 500 km dalla Piazza Rossa – diventi un satellite militare degli Stati Uniti mediante la NATO. Il metodo di Putin è sguaiato, fondato su una forza militare che probabilmente porterà meno risultati alla Russia di quanti non gliene potrebbe portare una politica d’influenza basata anche su metodi più soft, ma la responsabilità europea c’è ed è enorme.

Enorme in primo luogo perché qualche Stato europeo ha soffiato sul fuoco di un Paese balcanizzato, cercando di usare per i propri scopi politici (ostilità a Mosca) la piazza in rivolta di Kiev (“EuroMaidan”). Con il risultato magnifico di un’Ucraina che si avvia alla spaccatura – di diritto o di fatto non lo sappiamo ancora – come le folle festanti in Crimea che accolgono i russi dimostrano. Se la politica estera europea fosse unica, questo affare sarebbe probabilmente stato gestito in modo meno improvvisato ed astioso. Senza lacerare l’Ucraina, quindi.

Enorme in secondo luogo l’Europa disunita continua a ragionare secondo la divisione di Yalta per zone d’influenza. Si continua cioè fare il gioco degli Stati Uniti, credendo che coincida con il nostro: si continua a vivere l’Europa occidentale come un nemico della Russia, votato a sottrarle territori d’influenza. È un’assurdità completa, ma è ciò che il magnifico vertice di Vilnius (ultimo anello di una lunga catena) ha cercato di fare. (Europa occidentale + Stati Uniti) vs. Russia è una formula che insanguina l’Europa anziché pacificarla. Sarà un caso, ma Yalta è proprio in Crimea: tutti i nodi, prima o poi, vengono al pettine!

Enorme in terzo luogo perché manca una visione strategica degli interessi europei, la quale – fra le tante cose – imporrebbe una politica di collaborazione e buon vicinato con la Russia, anziché il tentativo di espandersi ai suoi danni. Imporrebbe una pianificazione e gestione uniche della politica estera europea. Imporrebbe un rapporto di stretta e forte alleanza con gli Stati Uniti, ma non più dal ruolo di tanti piccoli staterelli quasi vassalli, bensì come continente unito politicamente ed anche militarmente. Tutto ciò invece non succede né accenna ad avvicinarsi.

Dove risiedano difficoltà e nemici di questa prospettiva è la domanda che l’Europa, se vuole crescere, dovrebbe cominciare a porsi. Sicuramente non al Cremlino, però, per il quale un’UE forte con cui condividere un bilanciamento fra potenze certamente non dispiacerebbe.

“Beppe, esci da questo blog!” 1-0 per Renzi

Un punto, non solo di onore, ma anche di merito politico, è andato oggi a Matteo Renzi. “Beppe, esci da questo blog!” è stata forse l’unica frase compiuta che il Presidente del Consiglio incaricato ha potuto terminare senza essere interrotto e offeso dal capo politico del Movimento 5 Stelle.

E Renzi ha centrato in toto la questione. Beppe Grillo, presentatosi per parlare da solo, per non essere un interlocutore, non per essere consultato (come a maggioranza gli aveva chiesto all’ultimo minuto il “suo popolo” mediante il blog), ma per fare uno show, per fare il suo numero.

Lo spettacolo è stato penoso ed ha rovinato la pausa pranzo a molti di noi. Ma Beppe Grillo, che ho ascoltato attento dal primo all’ultimo minuto, ha fatto una figura meschina, miserabile, da poveretto. Da chi ha voluto adempiere annoiato ad un voto on-line, senza prendere sul serio l’istanza di rinnovamento profondo che tanti italiani hanno chiesto di incarnare a lui ed ai parlamentari eletti nelle sue liste.

La magra figura è proseguita in quella che sarebbe dovuta essere la conferenza stampa della delegazione a 5 Stelle, ed invece si è rivelata una crisi isterica del capo (e con i suoi deputati che gli stavano dietro con la faccia impietrita e molto imbarazzata). Isteria di chi ha probabilmente compreso di aver sbagliato strada, ma non lo vuole ammettere. Isteria di chi ha raccolto i voti su un programma di radicale cambiamento, che però poi non attua, ed anzi si infuria se qualcun’altro cerca di “copiarne” un pezzettino. Ma come, non erano quelli del “voteremo tutto quello che coincide col nostro programma”?

Otto milioni e mezzo di italiani non hanno mandato in Parlamento centosessanta deputati e senatori perché si facesse uno show! E ha fatto quindi benissimo Renzi a chiudere il penoso non-incontro, ma soprattuto a dispiacersi in primo luogo per quegli elettori e per la mortificazione del loro voto. Adesso sta a Renzi dimostrare se – come promette – sarà il nascituro governo a farsi carico di questa sacrosanta istanza di cambiamento che è stata mortificata.

Il quasi premier può avere le carte in regola per fare tutto ciò, ma la partita è appena cominciata. Intanto, 1-0 per Renzi.

Onore al soldato Enrico

Enrico Letta, Presidente del Consiglio ora dimissionario, assume su di sé in queste ore le conseguenze di errori e scelte sue, ma anche di errori e scelte di altri.

Sarebbe errato, credo, osannarlo ora, per compensare con complimenti tardivi (e ipocriti) il modo sguaiato con il quale il premier uscente è stato liquidato. Sarebbe sbagliato anche per coerenza, perché tanti di noi (italiani) non hanno risparmiato al suo governo critiche su critiche, specie in campo fiscale per l’orrida vicenda legata all’abolizione dell’IMU sulla prima casa. E mi ci metto anche io, senza ritrattare una riga di quanto ho pensato allora.

Credo però che, con oggettività e anche a costo di sembrare salomonici, in parte il governo Letta può essere criticato per errori suoi, soprattutto di timidezza ed attendismo. Ad esempio, perché il bel documento “Impegno Italia”, che è un programma d’azione serio e preciso, non è stato presentato prima, all’uscita di Berlusconi dalla maggioranza o subito dopo l’elezione di Renzi alla segreteria del PD? O anche subito prima delle primarie, costringendo candidati ed elettori ad esprimersi con sincerità sul governo? Forse Enrico Letta ha un po’ peccato di deferenza verso il neo-leader fiorentino, che temeva e che, se proprio avesse voluto arginare, avrebbe dovuto affrontare senza chinare il capo.

D’altra parte, però, non tutto il male viene da Enrico. Egli ha dovuto certamente operare in condizioni difficilissime, provate dall’istantaneo viaggio fatto a Berlino dalla Merkel nella stessa giornata in cui aveva raccolto la fiducia dal Parlamento italiano, e soprattuto dalla forzata convivenza di cinque mesi (28 aprile-28 settembre) con Berlusconi, con tutto ciò che essa ha comportato.

In realtà, dopo quello guidato da Mario Monti, il governo Letta è apparso più che altro come il secondo governo Napolitano. Per cui sui questo il premier uscente può stare sereno davvero, dal momento che non è suo lo schema di gioco che la Direzione del PD ha voluto terminare.

Se mi posso permettere un giudizio, penso che quella che il nuovo corso del PD sta cercando di archiviare non è tanto la leadership di Enrico Letta (mai nata), quanto quella di Napolitano, che è stato il vero capo dal centrosinistra fin dai primi scricchiolii del governo Prodi (2006-7) e la vera guida del Paese dall’ottobre 2011 ad oggi. Quello che il Partito Democratico, due giorni fa, ha cercato di fare è il passo che chiuda l’esperienza dei governi ispirati direttamente dal Quirinale, avviando una nuova stagione dove sia la forza stessa del Partito, fondata nelle primarie, ad ispirare ed orientare il governo del Paese.

È una bella sfida, e io tifo perché sia la forza collettiva di un grande Partito a prevalere, nonostante tutti gli errori anche gravi che possono essere stati fatti.

In questo senso, una domanda è lecita: sarà il primo governo Renzi o il terzo governo Napolitano?

L’occhio sbircia oltre il muro di Pafos street

Una delle cose che ti colpisce di Cipro è che quel conflitto tanto declamato, per il quale l’isola è tanto famosa nel mondo, là sembra non esista. L’ “altra metà” non esiste mai nei cartelli stradali, nelle cartine, nelle risposte che ricevi. Se dalla metà greca, europea, vuoi andare di là, ti devi arrangiare con gli occhielli in bianco e nero della tua guida italiana.

Quello che divide la Cipro greca e la Cipro turca non è solo un muro, non sono i caschi blu dell’ONU, è un salto spazio-temporale. Si fronteggiano, fingendo maldestramente di ignorarsi, la frenesia europea e la lentezza asiatica, l’incenso nelle iconostasi ortodosse e il rumore felpato dei tuoi stessi passi sui tappeti delle mosche che erano cattedrali gotiche dei crociati. Solo qui può esistere il concetto di “moschea gotica”, perché qui è come se due magma ribollenti, due correnti oceaniche si toccassero creando un vortice dopo l’altro.

Quando sono stato a Nicosia, alloggiavamo in un alberghetto di una zona signorile, piena di buganvillee, ad occidente del Centro storico. Per entrare in quella forma perfetta, disegnata con squadra e compasso dai Veneziani, la più comoda è la Porta di Pafos, ad ovest appunto. Non ti aspettavi, quando ci arrivi, che dal bastione alla sinistra della Porta potesse essere trincerato con filo spinato e garitte. Il giorno dopo ti accorgi che tutto quel barricamento cela in realtà un parco pubblico, con altalene e cipressi, dal quale però nessuno osa scattare foto al di là. Quando mio padre ci prova, gli dico disperato che sarebbero saltati fuori dei soldati turchi. Lui la foto la fa lo stesso, ma gli viene mossa, forse per la stizza di avere un figlio così ligio; i soldati turchi ovviamente non saltano fuori; e a me rimarrà l’amaro in bocca di aver impedito uno scatto storico, che a Bologna mi sarei goduto e che un giorno, chissà, avrebbe testimoniato una divisione del passato.

Dicevo della Porta di Pafos… la strada che da lì dovrebbe attraversare tutto il centro fin al suo cuore è interrotta dopo pochissimi metri. Giusto la chiesetta cattolica, la sola nel Centro storico, fa in tempo a sopravvivere alla morsa di quel fronte di guerra che si è impietrito, calcificato, perché è la sede diplomatica della S. Sede e gli ambasciatori non si toccano. Poi subito la strada è sbarrata da un muro di bidoni arrugginiti con un po’ di filo spinato sopra, una barricata quasi improvvisata, messa lì quarant’anni fa e lì rimasta. Puoi sbirciare dentro, tanto oltre non c’è nessuno: c’è la terra di nessuno. Qualche centinaio di metri vuoti, senza anime vive tranne forse quelle di qualche gatto, la strada che viene mangiata da alberi ed erbacce. Le porte sprangate da qualcuno in fuga tanto, troppo tempo fa.

La parte abbandonata di Pafos street, a Nicosia (Cipro).

La parte abbandonata di Pafos street, a Nicosia (Cipro).

Il salto spazio-temporale custodito dai caschi blu in uno degli angoli più belli del Mediterraneo separa la magia del centro di Nicosia in due. A sud, affollato, nella parte greca il centro è rinato ma è sfigurato da costruzioni moderne inguardabili che passo passo prendono il posto delle storiche case in pietra chiara. La tanto declamata Ledra street, il corso pedonal-commerciale di Nicosia greca, non dice niente a nessuno, solo una rassegna di negozietti più o meno anonimi. Sopravvivono, bellissimi, a mo’ di isole alcuni complessi che trasudano ancora una storia fatta di convivenze etniche e dominazioni successive. Li trovi nel quadrante sud-est, dove c’è un po’ meno gente e io – povero scemo italiano che mi godo una città solo se è storicamente bella – continuo a non capire perché stiano tutti nello struscio anonimo di Ledra street.

Al di là del salto, della dogana solo pedonale costruita negli anni ’70 sul modello di Berlino-est (e si vede!), c’è l’Asia. I suoi colori, il ritmo più placido. Nicosia nord, la parte in mano turca, forse grazie ad una provvidenziale mancanza di fondi, è rimasta intatta. Non ci sono palazzoni, non c’è H&M o il McDonald’s, ci sono ancora quartiere poveri e popolari in pieno centro, una cosa che per noi europei è da libro folkloristico. C’è però, dentro e attraverso quelle pietre chiare rimaste lì, la paura dell’assimilazione, di essere fagocitati da qualcosa che non ti capisce perché non gli appartieni.

In questi giorni una delle notizie che passa in Italia sotto abbondante disattenzione è la riapertura dei colloqui di pace fra le due metà di Cipro. Non so, sinceramente, se dietro l’ottimismo di maniera cui gli attori sono costretti almeno quando iniziano una trattativa ci sia qualcosa di serio. Non so per quanto tempo ancora saranno solo i gatti ed i serpenti ad aggirarsi per l’abbandonata Pafos street. Nessuno credo sappia quanto ancora Europa ed Asia qui si scontreranno usando stereotipi d’altri tempi. Un giorno sicuramente quel muro fatto di bidoni cadrà e la storia sarà scritta da un qualche vincitore.

Il salto spazio-temporale si sposterà un po’ più in là, meno appariscente, meno clamoroso, ugualmente vero.

Nel 2014 l’Europa riscatti il 1914

Il 28 giugno di cento anni fa, sul Ponte latino di Sarajevo, l’assassinio di Francesco Ferdinando d’Austria segnò l’apertura della Prima guerra mondiale. Alla fine del “guerrone” – come lo definì Pio X poco prima di morire – l’Europa cambiò volto, morta nella tomba di 24 milioni fra morti e dispersi, e le ci volle molto tempo, molta fatica ed altri morti ancora per tornare a risorgere.

Nel 2014 l’Europa può riscattare quel doloroso 1914. Ci sono le occasioni giuste per farlo: anzitutto le elezioni europee di maggio, ma non solo. Una pagina importante, a questo proposito, possono scriverla gli scozzesi ed catalani, chiamati al voto anche loro nel 2014.

Le elezioni europee cui saremo chiamati, dalla Lapponia alle Canarie, alla fine della prossima primavera saranno le prime in cui – grazie al Trattato di Lisbona del 2007-2009 – ogni cittadino europeo voterà conoscendo i candidati a Presidente della Commissione: un primo battesimo di “campagna elettorale europea”, quindi, ma ancor più un’acquisizione di consapevolezza per tutti, e soprattutto per chi verrà eletto, di essere stato votato davvero da milioni di persone e volti.

Attualmente, presi dal torpore e così suscitando ulteriore disinteresse ed inconsapevolezza, i partiti europei sembrano affrontare con lentezza e flemma questa novità dirompente. L’unica formazione che ha già formalizzato la propria candidatura di punta è la Sinistra Europea (che per l’Italia comprende Rifondazione comunista), che ha individuato il greco Alexis Tsipras, forte di una sua grande affermazione in patria. Sta per formalizzare la candidatura anche il Partito Socialista Europeo, dove l’unico nome emerso è quello del bravissimo Presidente del Parlamento europeo, il tedesco Martin Schulz, reso celebre in Italia per il triste siparietto con Berlusconi che nel 2004 gli diede del “kapò”.

Ma perché è così importante questa novità? Perché confrontarsi con candidature uniche in tutta l’Unione significa, sia per gli elettori sia per i candidati, dover fare un salto in avanti di consapevolezza di quanto l’Europa sia una casa politica comune a tutti i nostri popoli. Proprio la Prima guerra mondiale, cent’anni fa, seppellì gli Stati dove la pluralità etnica era la norma. Inoltre, e non certo secondariamente, queste candidature uniche europee saranno un salto di qualità notevole in termini di democrazia.

Le altre occasioni “di riscatto” date in questo 2014 sono i referendum per l’indipendenza che si terranno in Scozia (il 18 settembre) ed in Catalogna (il 9 novembre). Può in apparenza sembrare un controsenso, ma è più che sensato affermare che, se in questi voti si affermasse l’opzione dell’indipendenza, l’Europa nel suo insieme ne uscirebbe rafforzata. Moralmente e quindi, con lungimiranza, anche sostanzialmente. Perché questi due popoli, con storie e culture riconoscibilmente autonome da Inghilterra e Spagna, non ne stanno facendo una questione di isolazionismo, di localismo esasperato. Ma una questione di futuro comune: se vogliamo prosperare bene e insieme – è il ragionamento – ciò che ci basta sono un (auto)governo scozzese o catalano per le questioni domestiche, ed uno europeo per il resto. L’Europa quindi non è in discussione, ma è finalmente individuata come la casa giusta, di dimensioni appropriate, per affrontare il XXI secolo.

Sarebbe bello quindi che questo 2014, anno di voto per gli europei, significasse per tutti noi un salto di qualità verso un continente unito, democratico e capace di governarsi. In questo modo, avremmo commemorato al meglio il sacrificio di 24 milioni di noi, avvenuto sui nostri monti ed in tante trincee di cent’anni fa.